La Comunicazione nel mondo contemporaneo – Appunti per una riflessione etica

1. Introduzione

Il campo del sapere nelle società informatizzate si configura sempre di più come un percorso che analizza i fenomeni come principalmente fatti comunicativi. Per usare l’elenco riportato da Lyotard nel suo importante saggio sulla condizione postmoderna, discipline come la fonologia e la teoria linguistica, la cibernetica, l’algebra moderna e l’informatica, gli elaboratori e i loro linguaggi, la telematica sono solo alcune dei momenti particolarmente interessati alla comunicazione.(1) Sempre in questa direzione ,le scienze umane tendono sempre di più ad usare strumenti e modelli ricavati o dalla teoria dell’informazione o dalla linguistica o della filosofia del linguaggio.(2) Gli stessi modelli sono resi operativi a livello d’indagini culturali da dove la cultura è osservata come un vasto fenomeno comunicativo. In questa prospettiva la rilevanza della “comunicazione” assume vari significati particolarmente vivi “oggi”.(3)

  1. E’ un’operazione che si può studiare in vivo. Noi attualmente stiamo “comunicando”. Questa “vivacità” è particolarmente importante, una volta che si è stabilito la categoria dell’interesse come rilevante in ogni processo comunicativo, soprattutto in dimensione etica.
  2. Gli strumenti usati nelle varie discipline che costellano lo scenario scientifico “attuale” fanno parte di questo mondo.
  3. Esistono degli interessi antropologici e personali particolarmente orientati alla “relazione” tanto che tutte le discipline e le prassi psicoterapeutiche orientano su questo nodo le loro attività, i loro strumenti e le loro speranze.

Detto questo a mo’ d’introduzione è importante che specifichi il mio campo d’azione per donare delle coordinate alla mia “comunicazione”.

  1. I miei interessi, i miei studi e le mie prassi, vanno dalla filosofia alla teologia, (vista soprattutto come storia delle religioni, dei miti) all’etica e alla psicanalisi. Attualmente lavoro a livello psicanalitico ma il mio retroterra è quello che ho descritto. Mi sembra Importante rendere comprensibile questo perché si sappia in che ambito mi muovo. Vedremo come nella comunicazione è significativo il contesto e soprattutto il retroterra culturale del parlante.
  2. Credo alla circolarità comunicativa e alla necessità del dialogo perché ci sia una comunicazione il più possibile “aperta”, perciò il mio articolo dovrebbe essere uno spunto per una discussione. Dicendo “credo” m’innesto in un gioco linguistico che è dominio dell’etica: se infatti credo alla circolarità comunicativa vuol dire che ritengo bene ci sia, penso sia eticamente importante che la comunicazione sia circolare: in una parola do una lettura etica del fenomeno.
  3. Sono convinto che la nostra cultura, la nostra storia e il mondo che viviamo sono particolarmente complessi e abbisognano di qualcosa di “diverso” per riuscire a superare questa difficoltà.

La crisi della ragione, che è crisi della cultura occidentale, sarà un momento particolarmente osservato nella mia relazione.

Ho la presunzione di proporre il superamento di un modello culturale e di pensiero in cui tutti siamo immersi quello dialettico, per addivenire ad una forma comunicativa diversa che chiamo dialogica. Questo considero il cuore del mio articolo, anche se ci arriveremo per gradi, e se sarà necessario, camminare un po’ lentamente. Considero questa una dimensione essenziale dell’etica vista non come una disciplina asetticamente staccata dalla realtà, ma come un momento comunicativo essenziale al procedere conoscitivo e operativo

2. Il processo comunicativo

Il termine comunicazione ci deve fare un po’ riflettere.

Quando esiste un fenomeno comunicativo è necessario che ci siano vari elementi che ora esamineremo e che costituiscono la struttura della comunicazione

  1. la comunicazione esige che ci sia una fonte, una sorgente, un emettitore, un autore, un parlante, uno scrivente, un confezionatore d’immagini, un disegnatore. Chiameremo tutti questi personaggi l’emittente.
  2. l’emittente costituisce il primo anello della catena comunicativa in fase d’emissione, ma in fase di recezione siamo immediatamente rimandati ad un altro elemento che, proprio perché riceve, si chiama ricevente. E’ interessante notare come il ricevente non riceve l’emittente ma qualcos’altro. Si trova ad imbattersi o in un sistema di segni, o in lettere dell’alfabeto, o in un sistema d’immagini, o in un sistema di suoni; al limite il ricevente può ignorare totalmente l’emittente. Quanti lettori di fumetti o di gialli conoscono a fondo, o anche solo per nome, colui che li ha creati e li ha confezionati?
  3. ci siamo imbattuti in un terzo elemento: il mezzo (lettere stampate, suoni, linee di un disegno). Il mezzo è quasi sempre prevalentemente di natura tecnico-strumentale. Ma l’emittente attraverso il mezzo vuole comunicare “qualcosa” al ricevente. Questo “qualcosa” si chiama messaggio.
  4. il messaggio richiede un’operazione di significato, un’interpretazione. Il messaggio tende ad un ricettore e fa si che s’instauri ,tra gli elementi della catena comunicativa, una sintonia che significa “vibrare sulla stessa lunghezza d’onda”. E’ un fenomeno di tipo elettronico che tuttavia è semanticamente slittato a significare una particolare capacità comprensiva fra un’emittente e un ricevente. Questa è in sintesi strettissima la descrizione degli elementi che compongono il processo comunicativo. Quando si esamina una comunicazione, evidentemente si può partire da uno degli elementi, dall’emittente o dal ricevente o dal mezzo-messaggio comunicato, devo tuttavia ricordarmi di non fermarmi mai ad un solo punto. Il processo è circolare ed esige una lettura integrale. Questo significa che per capire bene il messaggio devo: conoscere il mezzo – sapere chi parla – sapere a chi parla. Questi elementi classicamente ricordati come chi – a chi – che cosa (dove chiaramente il chi è l’emittente , il a chi è il ricevente, il che cosa è il contenuto della comunicazione) si sono nel corso delle ricerche dilatati fino a comprendere anche gli interessi e gli effetti.(4)
  5. gli interessi sono i punti di vista, gli orizzonti, la cultura, anche gli interessi economici. Uno che parla, o che più in generale comunica, lo fa spinto da qualcosa. E’ difficile ci sia, anche se non impossibile, una comunicazione totalmente gratuita. Al limite anche questa è sorretta dall’interesse della gratuità. Notiamo come questo non riguarda solo la comunicazione collettiva, riguarda ogni tipo di comunicazione, anche quella strettamente meccanica e non umana.(5) La pianta studiata come sistema comunicativo rivela delle particolarità che possono essere osservate usando la griglia precedentemente esposta e soprattutto adoperando l’elemento interesse. Perché riceve o respinge una comunicazione solare? Perché ha i suoi interessi, che qui non è il nostro compito esaminare. Ma ci sono. Lo vedremo in azione quest’elemento (l’interesse) e sapremo concretamente valutarne la portata eccezionale come elemento chiarificante il sistema comunicativo. Ma l’interesse è anche una categoria squisitamente etica. Posso essere interessato alla distruzione, all’aggressività che fa del male e questo può costituire la molla della mia attività comunicativa. E’ chiaro che , stando così le cose, un’analisi etica di questo stile comunicativo non può restare indifferente e non sottolineare le implicanze di un tale sistema.
  6. gli effetti sono quello che una comunicazione produce. Se io dico ad un bambino che può attraversare la strada unicamente sulle strisce pedonali, l’effetto di quella comunicazione compresa, osservata e interiorizzata è quello di evitare degli incidenti spiacevoli e di regolare la viabilità. L’effetto di una notizia allarmante può essere anche il panico e un serio pericolo per un gruppo. L’effetto di una notizia falsa può essere rassicurante e costruttivo, l’effetto di una notizia vera può essere disastroso. Studiare gli effetti diventa molto importante per una globalità di comprensione del messaggio e per una valutazione del medesimo.(6)

Siamo così arrivati al completamento della nostra griglia d’analisi che si articola in questo modo:

chi / che cosa / a chi / con quali interessi / con quali effetti. 

3. La codificazione

L’operazione di “codificazione” merita una trattazione particolare perché ci permette di riflettere su quelli che sono le acquisizioni dell’informazione e ci dona la possibilità di sottolineare alcuni aspetti della sociologia della comunicazione veramente interessanti.

Allorché noi ci troviamo di fronte ad un trasmettitore e ad un ricevitore di tipo elettronico o comunque non facente parte del contesto coscientizzato, il messaggio può essere trasmesso nella sua quasi integrità dopo aver curato sufficientemente la neutralizzazione dei rumori e un adeguato canale di trasporto del codice. Con più il messaggio si fa complesso con più è difficile tradurlo in codice e leggerlo integralmente. Quando poi il messaggio diventa “umano” allora la ricchezza del fenomeno “uomo”, incide profondamente in tutto il processo così che si esige una lettura più attenta. Il punto fondamentale di confronto diventa il codice. Mentre per un’informazione tra calcolatori può essere sufficiente il codice matematico meccanico o elettronico, allorché è presente l’uomo, il codice si trova a condividere la complessità del soggetto agente. Il codice linguistico diventa allora formato da segni grafici e fonici, per sé equiparabili al codice meccanico, che subiscono però un salto qualitativo inglobando un significato che trascende il codice stesso e va ad attingere le possibilità espressive più alte dell’uomo. Il codice permette di canalizzare con segni esterni e sensibili un contenuto che va al di là. E’ quest’una delle ragioni per cui è impossibile una traduzione “integrale” del messaggio.

Il codice linguistico è frutto non solo di una scelta arbitraria, ma di un delicatissimo processo di selezione che congloba tutto il fenomeno culturale. Per cui, per conoscere esattamente un codice linguistico, è necessario entrare in sintonia con l’humus culturale in cui si è formato.

Tutto questo ci aiuta già a capire come non esistono mai dei codici linguistici asettici, ma come ogni codice debba essere letto in un contesto particolare; le sue leggi dinamiche non consistono solo in un intrecciarsi di segni, ma in un rapporto continuo tra segno e ambiente di derivazione.

Siamo giunti al problema importante che riguarda la “struttura” intesa soprattutto secondo la nozione saussuriana.  Il codice diventa un indispensabile strumento di comunicazione in quanto la struttura dell’uomo può esprimersi solo attraverso forme sensibili esterne che in ogni caso costituiscono dei “codici”. Codificare vuol dire allora “ingabbiare” in segni-simboli un contenuto che per sé trascende gli stessi segni e per questo l’opera di codifica non esaurirà mai le potenzialità espressive o le intenzioni complessive della fonte, almeno in maniera completa. Decodificare significa compiere l’operazione a rovescio sintonizzandosi su quei segni in quanto non opachi al messaggio che conducono. Esiste una differenza non solo quantitativa ma anche qualitativa tra il messaggio e il codice.

Possiamo fare due esempi:

  1. La comunicazione avviene tra un emittente e un ricevente di tipo elettronico o meccanico.
  2. Esiste anche a questo livello una differenza tra il codice e il segnale. Si può usare l’esempio ricordato da Eco.(7)

Allorché voglio trasmettere da monte a valle che il livello dell’acqua di una diga si alza io uso un codice (lampadina accesa/spenta). Il codice è diverso dal messaggio. Tuttavia essendo quest’ultimo di una semplicità elementare è tradotto completamente dal codice e si può poi decodificare facilmente. Allorché si volesse stabilire un’informazione più complessa (es. graduare l’altezza dell’acqua raggiunta dalla diga) bisogna evidentemente complicare il codice. Esiste una proporzione diretta: con più è frequente l’informazione, con più il codice è complesso con più è difficile la decodifica.

  1. Quando la comunicazione avviene tra due essere pensanti, la realtà si complica maggiormente. Allora il termine “segnale” è sostituito con il termine “messaggio”. Se io voglio trasmettere ad un altro che il “tempo è bello” non faccio altro che costituirmi emittente, codificare il mio messaggio, che esiste pensato in me, con dei segni-simboli (nel caso linguistico) affidare il mio codice al canale di conduzione e aspettare che l’eventuale ricevente decodifichi il mio messaggio.
  2. Già a questo livello pure elementare esistono delle difficoltà perché il termine “bello”-  frutto di convenzione arbitraria esprime “personalmente” quello che voglio dire. Infatti è sempre una scelta probabilistica operata a livello di codifica e nel processo di formazione della lingua e nella mia scelta personale.  Infatti ci possono già essere delle reali difficoltà nel cogliere “integralmente” il messaggio. Sottolineo il termine integralmente perché non considerando il termine si cadrebbe nello scetticismo più evidente. Se vale questo a livello di messaggio così elementare, ulteriori complicazioni subentreranno con 1’arricchirsi del messaggio stesso. Analizzata in questa prospettiva, la comunicazione rivela i suoi influssi sulle persone e le sue implicanze sociali. Ancora una volta individuo e società si trovano assieme in un processo che non potrà mai dissociarsi.

Ancora questo modello permette l’analisi dei due elementi: persona e società, a livello sincronico e a livello diacronico. Attraverso l’applicazione del modello infatti è possibile affrontare la problematica ermeneutica di una prassi significante (sia linguistica: testo, sia culturale generale) del passato con una continua attenzione alla lettura del presente. E’ in fondo il processo ermeneutico osservato sotto l’angolatura della teoria della comunicazione.

Tuttavia per esaminare più accuratamente l’influsso della comunicazione nell’ambito della nostra cultura è utile descrivere alcuni pilastri fondamentali che riguardano soprattutto la “comunicazione sociale”. Da alcuni è stata fatta l’osservazione , peraltro molto pertinente, che non può esistere comunicazione se non sociale. Infatti perché avvenga quel processo che sinteticamente abbiamo descritto è necessario che ci sia non solo un emittente e un ricevente, ma anche un codice con tutte le sue radicazioni culturali. Esso infatti diventa il legame solo apparentemente statico (proprio perché codificato) con la cultura di codifica e di decodifica. Per cui ogni comunicazione solo apparentemente può avvenire tra due persone, di fatto congloba una serie d’elementi più vasti che non scorrettamente possono essere chiamati sociali.

Tuttavia è anche vero che, per convenzionalità linguistica ormai accreditata, si usa parlare di “strumenti della comunicazione sociale” o anche semplicemente “comunicazione sociale” per indicare quel vasto fenomeno che riguarda non più solo un rapporto diadico ma una dinamica più allargata, si dice anche di massa. Ora questi elementi – stampa – cinema – televisione …. rappresentano delle considerazioni autonome e meritano di essere studiate nell’ambito di un discorso sulla comunicazione. Il mio intento metodologico – lo ricordo ancora – non è tanto una descrizione strutturale ed esaustiva dei mezzi stessi, quanto un osservare il loro influsso nell’ambito di un cambiamento socioculturale. Ho parlato di socioculturale e intendo osservare l’espressione con rigorosità. Infatti i mezzi della comunicazione sociale sono innanzitutto apparsi a livello “socio” e solo in seguito hanno fatto sentire Il loro riverbero sul “culturale”. L’influenza della televisione o del cinema sulla composizione del gruppo sono di notevole importanza nello studio delle abitudini sociali che ha ingenerato.(8)

Ma non è tanto questo il nocciolo del problema, anche se mi sembra metodologicamente corretto registrare la priorità dell’influsso a livello del sociale.(9) L’influsso si può registrare per quanto riguarda la quantità d’informazioni nuove che colpiscono i potenziali recettori, ed evidentemente anche per la qualità degli stessi messaggi che ingenerano risposte diverse proprie mentre si costituiscono come stimoli autonomi. Ma la riflessione più importante non si situa tanto a livello quantitativo, riguarda invece l’influsso a livello strutturale. Mc Luhan ha fatto osservare come non era così’ importante il contenuto del messaggio, che pure poteva incorporare una carica notevole di novità, era importante il “come” avveniva la comunicazione, e qual era l’influsso della “costruzione”. del messaggio. Per arrivare alla sua famosa espressione che “il mezzo è il messaggio”. Approfondire questa riflessione vuol dire inoltrarsi nel campo della sociologia della conoscenza nella sua forma più raffinata tendente ad osservare il condizionamento del pensiero che parte dalla “struttura”. In questo settore la struttura non è solo rappresentata dalle varie forme di raggruppamento personale, dai processi produttivi e dalle divisioni del lavoro, la struttura è evidenziata nel particolare modo di comunicare dei “media” che influiscono a livello di strutturazione del pensiero e in genere a livello di weltanschauung. E’ notevole a questo proposito l’apporto di T. Merton nella sua opera fondamentale Teoria e struttura sociale dove descrive l’influsso che la sociologia della conoscenza ha avuto in campo europeo e americano rispettivamente come scoperta della genesi delle idee dal punto di vista dell’intellettuale e dell’influsso delle opinioni dal punto di vista del pubblico.(10)

I mutamenti che i mezzi di comunicazione sociale portano a livello di costume sono allora di due tipi:

  1. Un cambiamento di contenuti per quanto riguarda la multiformità dei modelli di comportamento. Possono essere osservati e anche quindi a volte accreditati.
  2. Ma esiste un influsso più profondo che s’innesca a livello latente e che presiede alla strutturazione della personalità. Si è detto che il cinema è la storia scritta con la luce, la quale ha una composizione sua che si differenzia dalla parola e dal contatto personale. Nello scenario culturale precedente il linguaggio dell’immagine aveva poca cittadinanza e non era assolutamente strutturato secondo la “dinamica” del montaggio. La percezione di messaggi secondo questo codice ingenera invece delle forze autonome e caratteristiche che Instaurano un discorso prioritario di valori In fase genetica. Apprendere per immagini è diverso che imparare con il linguaggio scritto o parlato. Questo non solo per un’evidenza quotidiana e volgare, ma per un processo molto sottile che non va sottovalutato e che merita di essere studiato più a fondo per gli Influssi che ha sulle trasformazioni delle capacità conoscitive.

Se noi esaminiamo alcune priorità nella scala dei valori dell’uomo d’oggi notiamo come sia rilevante il discorso precedentemente fatto. Voglio sottolineare solo il problema delle prassi come esempio che vale per tutti.  E’ chiaro che l’importanza data a questo fattore è riscontrabile in una serie di sollecitazioni molto complesse, ma per quanto riguarda il nostro problema è rilevante il fatto che il linguaggio dell’immagine accentua l’apparato che maggiormente si trova essere in sintonia con un mondo “concreto”. Una certa contestazione a fughe essenzialistiche o vagamente spiritualistiche deriva anche da questa nuova “sensibilità”. Ancora una volta ,non per un’osservazione superficiale che purtroppo è stata di moda nelle riflessioni moralistiche, ma per una penetrante analisi della struttura del “media”. I quali solo apparentemente potrebbero essere accusati di apportare una visione bassamente materialistica. A un’osservazione più attenta essi contribuiscono a una concezione del mondo in cui è ostracizzata una dimensione falsamente spiritualizzata per riscoprire, attraverso una forma di comunicazione più globale, una visione di uomo e di realtà maggiormente pregnante.

Il linguaggio scritto infatti è stato il prodotto di un certo contesto “metafisico” in cui la riflessione sul cosmo e sul rapporto uomo-mondo era scandita secondo un ritmo particolare. In questo reticolo espressivo e interpretativo era facile universalizzare e astrarre ma era altrettanto facile ipostatizzare l’astrazione in una fuga che conduceva immediatamente all’ideologia e a volte all’alienazione. Una realtà concettuale non più verificabile e sfuggita al controllo della prassi poteva benissimo donare l’illusione di una possibilità di percezione dell’Assoluto non materiale. Sotto l’influsso di questo reticolo la stessa Era dell’immagine fu giudicata come povera, materialistica, sensista. Non si è capito di essere di fronte a un salto qualitativo che doveva dialetticamente incorporare, in una visione matura, la ricchezza dei vari elementi. Il linguaggio delle immagini infatti opera inequivocabilmente uno spostamento di accenti, predilige il discorso sensibile, codifica a livello di percezione visiva, tuttavia non resta ingabbiato in quest’orizzonte al momento che s’imbatte con un soggetto decodificante che fa proprio il messaggio incorporandolo in una realtà umano-sociale più vasta. In questa prospettiva il potenziale ricettore ha la possibilità di ricuperare la dimensione di superamento della realtà contingente in una sintesi di elementi che gli danno la possibilità di una fruizione più globale. E’ chiaro che non si vuole qui negare la peculiarità di un codice tipo quello scritto con le sue caratteristiche di formalizzazione e di concettualizzazione generalizzante, si vuole solo osservare come l’apparire e il consolidarsi del linguaggio dell’immagine non operi inevitabilmente una riduzione o una perdita di valori ma inaugura un nuovo approccio alla realtà che si dimostra aperto e fruttuoso nei confronti di nuove sintesi.

 4. Il linguaggio non verbale

E’ a questo punto che si può innescare una riflessione sul “mito”, visto come qualcosa che va al dl là del “logos”, della ragione calcolante che codifica tutto in maniera chiara e distinta.(11) E’ ancora a questo punto che si può parlare del superamento di una concezione che vede solo nel linguaggio, scritto e parlato, un codice adatto a comunicare. Si apre quello che comunemente è chiamato Il linguaggio non verbale, comune espressione che va di moda e che rompe un po’ le false assolutizzazioni presenti a livello culturale, dove per linguaggio, quasi automaticamente, s’intende il linguaggio parlato, fatto di “lingua” e di alfabeto.

In questa sede merita di sottolineare come esiste un linguaggio della luce, delle immagini, linguaggio vecchio quanto l’uomo e il mondo, esiste anche un linguaggio del corpo.  Il corpo è infatti il mio simbolo, il nostro simbolo, è un simbolo espressivo al massimo. L’enfatizzazione dell’uso della ragione apparso nel VI secolo in Grecia, e poi passato a tutta la cultura occidentale, ha offuscato un po’ quest’altro codice espressivo e simbolico che tuttavia oggi ritorna a imporsi in tutta la sua ricchezza. L’uomo, il suo corpo, è una realtà comunicante. Il corpo infatti non parla solo con la “voce”, parla con una serie innumerevole di codici che dobbiamo imparare a scoprire e a decodificare attraverso un uso ed uno scambio sociale.

Quanto può comunicare un volto, più di una parola! Come è più ricca la comunicazione gestuale della comunicazione in cui il logos impera! Il problema è ancora una volta culturale e attinge alla tesi iniziale che ho annunciato in apertura di relazione. Il superamento della ragione dialettica significa riscoprire il mito, dove per mito s’intende tutto Il mondo del simbolico che si esprime appunto con il simbolo e non con la ragione chiara e distinta. Ora il simbolo è quello che è. Non posso razionalizzarlo. Se lo razionalizzo non diventa più simbolo e passa nel regno di un altro codice. Del cinema posso parlare ma se parlo del cinema non faccio o non vado più al cinema, ne parlo.  L’espressione del mio corpo, del mio viso, dei miei occhi, è quella che è. Ne posso parlare – come faccio adesso – ma questo che faccio non è più l’espressione del mio viso, è il parlare dell’espressione del mio viso. L’enfatizzazione della cultura della ragione ha fatto sì che quasi fosse più importante parlare che vivere, spiegare che esperimentare.

La riscoperta del simbolo, del linguaggio dell’immagine s’innesta su di una visione dell’uomo e del mondo meno castrata, più aperta alle possibilità espressive che non vengono assolutizzate in maniera mono-direzionale.

 5. La semantica generale e la relativizzazione dei codici

Perché avvenga una comunicazione è necessario che ci sia un emittente, un ricevente e un codice. Ma perché la comunicazione sia il più possibile “forte” è necessario che ci sia “sintonia”. La sintonia non significa pensare allo stesso modo, significa operare in uno stesso “mito”. Il mito che è possibile intenderci anche se si è su frequenze diverse. Che è possibile dare all’altro la “buona fede” con la consapevolezza che nessuno possieda la verità ma che la verità è plurale. La verità plurale non significa relativismo, vuol dire che non esiste per l’uomo un solo modo di codificarla e la pluralità delle codificazioni fa parte dello statuto stesso della Verità Per spiegare questo è bene soffermarsi su una legge della semantica generale che spiega la complessità del fatto comunicativo e la scorrettezza delle assolutizzazioni indebite.  ,Alfred KORZYBSKI, un polacco emigrato in America, nel suo libro sulla semantica generale enuncia tre leggi che mi sembrano significative per il nostro discorso. Le elenchiamo con un breve commento rimandando ai testi specialistici chi volesse saperne di più.(12)

  1. La non identità (non identity): Il linguaggio non è uguale a quello che il linguaggio dice. Se io parlo dell’America, il mio parlare sull’America, non è l’America. Una cosa è l’America e una cosa è il mio parlare dell’America. Non c’è identità tra il linguaggio e il contenuto del linguaggio. Il concetto diventa più facile ricorrendo ad un esempio illustrativo del significato sopra esplicitato.  Il linguaggio è un po’ come una carta geografica che mi descrive un territorio. Ora la carta geografica non è il territorio.

La carta geografica dell’Italia non è l’Italia. Una cosa sono le linee e i colori che compongono una carta geografica e un’altra cosa le strade, le case e le montagne che compongono l’Italia e che sono solo raffigurate sulla carta geografica. Sembra questa una cosa banale e ovvia ma, come capita spesso, le cose ovvie sono dimenticate e si agisce come se non fosse così.  Quante volte, vedendo un programma cinematografico, si pensa che quella è la realtà e non si capisce che invece quella è una delle possibili rappresentazioni della realtà ?

  1. La non totalità (non allness): Un linguaggio, per quanto complesso possa essere, non ci può mai dire tutto. Non esiste capacità di codificazione che riesca a trasmettere, attraverso dei segni, tutto quello che uno sente o che ha in mente di dire. Non si tratta solo dell’incapacità del soggetto comunicante, è pure una deficienza inerente al sistema di codificazione. Se si riprende il paragone con la carta geografica, essa non riesce a descrivermi tutto il territorio; pur perfetta che si possa immaginare, la cartina di Roma non riuscirà mai a descrivermi tutta Roma. Questa seconda regola semantica è chiaramente collegata alla precedente: proprio perché esiste la legge della non identità, si rende necessario riflettere pure sulla non totalità.

Questa regola “umile” è molto significativa per combattere le interpretazioni “onnipotenti” dei vari linguaggi; onnipotenza chiaramente collegata al vissuto dei produttori che proiettano questa caratteristica sul loro linguaggio. Tiene inoltre le giuste distanze nei confronti delle pretese esaustive: nessuno può pretendere di esprimere “tutto” attraverso il linguaggio, fosse anche il più raffinato. (13)

  1. La capacità (del linguaggio) di riflettere su sé stesso (selfreflexlveness): Pur non essendo esaustivo, pur non essendo identico alla realtà di cui parla, il linguaggio può riflettere su sé stesso. Esiste un linguaggio del linguaggio che permette di non sfuggire alla realtà, ma di inglobare lo stesso linguaggio nella realtà.  Bisogna far notare che questa posizione sottesa ai semanticisti generali, e che noi abbiamo preso come significativa per una conclusione delle nostre piste di ricerca sulla comunicazione vista come codice, non porta al nichilismo o al completo pessimismo sulla possibilità di percepire la realtà. Non dice che il linguaggio non tocca la realtà che descrive, afferma che non la tocca “completamente” e che non vi s’identifica pienamente, ma ammette che si possa sensatamente parlare della realtà una volta che ci si è immunizzati dei microbi identificati dall’analisi semantica.

6. La comunicazione ego centrata – rigida – e l’assolutezza del “logos”

6.1. Il monologo

Una delle forme in cui oggi la comunicazione più frequentemente si manifesta è quella che noi abbiamo chiamato la comunicazione “rigida”.(14) Per rigidità intendiamo l’incapacità a mutare atteggiamento in funzione di una condizione obiettiva, l’incapacità di ristrutturare gli elementi di un contesto percettivo, concettuale e verbale di fronte alle nuove richieste di una situazione che si è modificata.(15) Possiamo elencare alcune caratteristiche della comunicazione rigida:

  1. Il rifiuto più radicale delle convinzioni opposte.
  2. La scarsa differenziazione tra le diverse convinzioni.
  3. La conoscenza più approfondita di ciò che si giudica positivo nei confronti di ciò che si rifiuta.
  4. L’atteggiamento di enfatizzazione del “o – o”.
  5. Uno spiccato meccanismo schizoide di scissione.
  6. Una scarsa capacità della funzione – “e – e”.

Una comunicazione di questo tipo è caratteristica di un soggetto narcisistico con spinte paranoiche.

Sappiamo che il narciso è rigido, teso su di sé, non vede che la sua immagine, 1′ altro gli fa da specchio e reduplica quello che lui pensa di sé. Il narciso è il monologo. A volte è il monologo che finge il dialogo.

Ritengo che la comunicazione ego centrata sia una delle caratteristiche fondamentali che riscopriamo nelle patologie comunicative. Ritengo inoltre che questa forma comunicativa non sia solo importante nel soggetto o nella coppia dialogante, ma ritengo che sia un elemento caratterizzante la nostra cultura che da molti è stata definita come la cultura del narcisismo. E’ proprio la rigidità di questa forma comunicativa che ha permesso l’assolutizzazione per noi indebita di alcuni codici quali, per esempio, il codice che privilegia il logos a scapito di altri che invece danno importanza a quello che abbiamo chiamato il simbolico.

La comunicazione rigida il più delle volte si fonda su un’enfatizzazione della ragione che non ammette repliche, che si pone come autogiustificante e che non accetta il confronto se non in vista di una competizione vittoriosa.

6.2. La comunicazione etero centrata

La comunicazione etero centrata è propria del soggetto, dell’emittente che ha superato la relazione narcisistica, che è pronto a superare il proprio schema di riferimento assumendosi alternativamente il proprio e l’altrui punto di vista. Per riuscire a comunicare in maniera etero centrata è necessario avere una coscienza metalinguistica. Cioè è necessario sapere meta comunicare.(16)

6.3. La meta comunicazione

La meta comunicazione è la comunicazione sulla comunicazione e riguarda il condensato di tutte quelle operazioni che abbiamo sin qui descritto. Saper contestualizzare, sapere che un codice non esprime mai tutto, che gli schemi di riferimento sono diversi, che gli interessi cambiano, che una comunicazione può valere più per il suo contenuto relazione che per Il “che cosa” vuoi dire, tutto questo è meta comunicare.

Vorrei soffermarmi sulla grossa distinzione tra contenuto e relazione.

La relazione è una parte importante nella comunicazione. Può essere la più rilevante. Tante incomprensioni comunicative dipendono dal non tenere in considerazione questo problema. Due interlocutori non si capiscono a volte proprio perché non vogliono capire il meta messaggio che sta sotto il loro apparente dialogo. Magari è un messaggio di distruzione dell’altro, di imposizione autoritaria, di rigidità.

7. Il dialogo dialettico

Il superamento del monologo avviene attraverso il dialogo. Ma c’è dialogo e dialogo. Una delle forme usuali della comunicazione dialogica è quella che fa uso della dialettica: il dialogo dialettico.

Il dialogo dialettico è ancora ancorato ai presupposti del monologo o della comunicazione ego entrata. Infatti l’uso della ragione chiara e distinta è, a volte, l’uso di un coltello che taglia le ragioni ai torti, che giudica, che non è affatto disposto ad accogliere l’altro.

E’ il superamento del monologo ma anche del dialogo dialettico. E’ un’altra concezione globale dell’uomo. Il dialogo dialogale presuppone il “mito”. Presuppone cioè che la ragione dei greci, il logos, il chiaro e il distinto, non sia tutto e non possa ingabbiare tutto. Presuppone la necessità dell’incontro tra il logos e il mito.

Si apre qui un capitolo importantissimo.

Il dialogo dialettico è una specie di arena intellettuale in cui la ragione lotta per vincere l’avversario. Può essere un’attitudine competitiva forte nel senso che si vuoi distruggere l’interlocutore o si può essere più “bonari”, di fatto lo scopo del dialogo dialettico è quello di far trionfare la ragione, e la ragione di uno solo perché la verità in questo contesto non può essere che “una”.

Ora il dialogo dialettico non è l’unica forma di dialogo.

 8. Il Dialogo dialogale

La scoperta del dialogo “dialogale” rappresenta un’importante mutazione culturale.

Il vero dialogo, e noi potremmo dire la vera comunicazione, non è né uno strumento della dialettica, né un aiuto che viene da un altro, dall’esterno per fortificare la mia introspezione.

Il dialogo dialogale non è il rafforzamento del monologo per il fatto che quattro occhi vedono meglio di due. E’ una novità, una prospettiva diversa. Non è più solo un nesso per conoscere l’altro o il suo punto di vista o un aspetto della potenza dialettica. Il dialogo è la mia apertura all’altro affinché mi dica e mi sveli il mio mito, quello che non posso conoscere da solo, quello che io considero come ovvio.

Il dialogo è una maniera di conoscermi e di scoprire il mio punto di vista a partire da un’interiorità più profonda che restava nascosta in me e che l’altro risveglia attraverso il suo incontro con me. Il dialogo riconosce che l’altro non è solo un aiuto esterno e accidentale ma che è indispensabile alla ricerca della verità perché io non sono più autartico, autosufficiente, autonomo.

Il dialogo va alla ricerca della verità dando confidenza all’altro, mentre la dialettica va alla ricerca della verità credendo nell’ordine delle cose, nel valore della ragione.

La dialettica è l’ottimismo della ragione. Il dialogo è l’ottimismo del cuore.

La dialettica crede che si può avvicinarsi alla verità appoggiandosi sulla consistenza obiettiva delle idee. Il dialogo crede che si può avanzare sul cammino della verità appoggiandosi sulla consistenza soggettiva dei dialoganti.

Il dialogo non vuole essere un “duo-logoi” ma un “dia-logos“.(17)

Questa forma di dialogo l’abbiamo chiamata dialogo dialogale e ci sembra un’acquisizione “forte” dei nostri tempi, su cui la riflessione sulla comunicazione porta un guadagno notevole.

SI tratta di rompere la narcisistica considerazione di sé a livello individuale e culturale, rompere l’assoluta fiducia nei nostri codici, si tratta di domandarsi con Rogers:

– “riesco veramente a permettere che un’altra persona si senta ostile nei miei riguardi? Riesco ad accettare la sua ira come una parte autentica, legittima di lei? Posso accettarla quando considera la vita e i suoi problemi in maniera totalmente diversa dalla mia?”

L’accettazione implica tutto ciò e non può essere facile    Ho l’impressione che nella nostra natura, vi sia tendenza a pensare “Tutti gli altri devono sentire, pensare, credere quello che io penso, sento e credo”.

9. Riflessioni etiche conclusive

Il modello chiamato del monologo posso considerarlo come un modello socio culturale e/o come un modello mentale.

Ambedue i modelli hanno a che fare con l’etica intesa come un sistema di scelte fatte in base a un codice che obbedisce a dei valori.(18)

Il monologo come modello socioculturale ha dato vita e ha legittimato i sistemi autoritari verticistici, dove il sovrano aveva il potere di vita o di morte e dove l’organizzazione sociale si basava su un concetto regolativo di VERITÀ’ che potremmo chiamare monologico.

Gli schemi mentali corrispondenti rispondevano alle stesse caratteristiche e regolavano un’etica piuttosto rigida e autoritaria, imposta attraverso un codice che sopportava una sola lettura. Le norme erano di un certo tipo e, a volte, si confondevano con gli stessi valori.

Il dialettico è pure uno schema mentale socioculturale che ha guidato un’impostazione etica che legittimava un uso della ragione meno rigida e che dava adito a un processo argomentativo in cui la stessa ragione s’imponeva come risolutrice dei conflitti attraversi un uso dialettico della medesima.

Il processo dialettico in fondo si basa su un processo competitivo tra tesi e antitesi dove alla fine il vincitore è tale proprio perché lotta (anti-tesi) e ha la meglio.

Il modello dialogico è meno rigido e permette la non assolutizzazione delle posizioni, attraverso un uso argomentativo della ragione che non isola dall’affettività e dalle emozioni ma la collega in maniera inscindibile ai vissuti dell’uomo.

Un ‘etica dialogica è allora improntata al rispetto delle convinzioni altrui e all’attenzione per narrare come le varie posizioni etiche sono costruite e argomentate.

La comunicazione, vista in quest’angolatura, è un po’ il cesto in cui è indispensabile porre le varie cose che devono poi essere messe in relazione tra loro in modo corretto. Quale è, secondo la mia etica il modo corretto? È il modo che pur tenendo presente la necessità a volte del monologo e del dialettico, si posizione tuttavia sulla priorità della scelta dialogica vista come il punto più alto delle capacità umane.

Il VALORE dialogale diventa quindi l’attrattore per la costruzione di una serie di norme che devono rispondere a queste caratteristiche. La comunicazione allora DEVE essere circolare e trasparente.

Circolare nel senso di obbedienza a delle leggi del dialogo che sono anche le leggi della comunicazione ben riuscita.

Perché ci sia una buona comunicazione è necessario che ci sia la sintonia. Ma la sintonia è possibile solo se io alterno la posizione dell’emittente con quella del ricevente. DEVO nello stesso tempo pormi come chi parla e chi ascolta. Il CHI e l’A CHI devono armonicamente alternarsi. Questa è una norma precisa che non è vaga, che comanda il nostro modo di comunicare sia a livello duale che gruppale e rimanda al VALORE della comunicazione condivisa che diventa normante le varie forme comunicative.

Anche l’etica, intesa come disciplina normativa, non sfugge, nella mia prospettiva etica!, a quest’impostazione. Non ci potrà mai essere un’etica se non in un’impostazione comunicativa come quella annunciata.

Articolo apparso sulla Rivista Bioetica e cultura (VIII 1999)2 Palermo .

Note Bibliografiche

  1. J.F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1985
  2. V. TONINI, Scienza dell’informazione, cibernetica, epistemologia, Bulzoni, Roma 1971
  3. G. PALO, La bioetica nella riflessione e nella prassi medica. In: Il coma postanossico, Arico, Milano 1987. Collegato direttamente alla riflessione etica più recente Cfr. S. PRIVITERA, Dalla esperienza alla morale. Il problema ‘esperienza’ in teologia morale, EDI OFTES, Palermo 1985 e soprattutto ID., Narrare la vita alla generazione presente per le generazioni future, Armando, Roma 1995.
  4. U. ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1984
  5. A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza e filosofia, Il Mulino, Bologna 1961
  6. G. FABBRIS, La comunicazione pubblicitaria, Angeli, Milano 1975
  7. U. ECO, La struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica, Bompiani, Milano 19838. W. SCHRAMM, La televisione nella vita dei nostri figli, Milano 1971
  8. M. LIVOLSI, Comunicazione e cultura di massa, Milano 1982
  9. R. MERTON, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1983
  10. A. GARGANI, Lo stupore e il caso, Laterza, Bari 1986
  11. Per la divulgazione in Italia del pensiero di A.KORZYBSKI cf. M. BALDINI, La tirannia e il potere delle parole, Armando, Roma 1981
  12. Per l’applicazione di questo assioma al mondo etico cf. G. PALO, Precarietà umana e onnipotenza ermeneutica-etica e psicoanalisi in De Dignitate hominis, Herder, Freiburg i. Br. 1987
  13. M. BANISSONI, Contributo bibliografico allo studio della rigidità in <<Rivista di Psicologia>> LXIII, (1969) 183-226
  14. M. MIZZAU, Prospettive della comunicazione interpersonale, Il Mulino, Bologna 1974
  15. G. WATZLAVICK, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1981
  16. R. PANNIKAR, Temoignage et dialogue, in <<La Testimonianza>> (1972) 367.
  17. Per una esplicitazione del mio pensiero etico mi permetto di rimandare a: G. PALO, Comunicazione in Dizionario teologico Interdisciplinare, Marietti, Torino 1978. G. PALO, Per una metodologia comunicativa: asterischi etici, in Recent Avances, Anestesthesia Pain Intensive Care and Emergency, Apice, Trieste 1989; G. PALO, Trattato di etica teologica, EDB, Bologna 1981

Lascio un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *