I Sette Vizi Capitali: Per una Riflessione Etico-Psicoanalitica

“L’Oracolo di Delfi
non afferma
non nega
accenna“[Eraclito, frammento 120]

Mi collego al frammento di Eraclito per dare le coordinate metodologiche del mio discorso,che non vuole essere esaustivo o completo sotto nessun punto di vista.
Desidero solo significare, accennare ad alcune” associazioni libere” che vanno a pescare nella mia memoria soprattutto analitica, ricordandosi di molti pazienti che mi hanno sollecitato queste riflessioni e soprattutto cercando di sondare nella mia memoria di paziente che continuamente si mette in rapporto con la dimensione analitica giocando una esperienza singolare come quella della psicoanalisi:una memoria che evidentemente non si limita alla professionalità’ analitica ma si radica nelle varie esperienze culturali che hanno costellato la mia vita[1].

In questa prospettiva vorrei articolare il mio discorso in tre momenti:

  1. L’onnipotenza: il peccato capitale
  2. L’invidia una: esperienza dell’inconscio
  3. L’ira e il narcisismo aggressivo
  4. La lussuria e la onnipotenza del piacere

1. L’ONNIPOTENZA: IL PECCATO CAPITALE

Una delle esperienze fondamentali che si fanno in analisi è la scoperta della dimensione inconscia che sottostà a molte scelte e che soprattutto struttura alcune modalità esistenziali e comunicative del soggetto.

E’ chiaro che dal punto di vista analitico il peccato non ha le connotazione teologiche che siamo abituati a sottolineare.

Soprattutto l’inconscio non dovrebbe essere coperto da questa nozione che per definizione esige la libertà’ e la volontà chiaramente in azione.

Eppure anche dal punto di vista di una riflessione teologico, o più largamente religiosa, esiste la nozione di peccato originale che tocca ciascun uomo senza entrare in rapporto con la dimensione   volontaria. Nessuno infatti sostiene che il peccato originale sia da attribuirsi alla lucida volontà di ciascuno[2].

Eppure questa nozione ha permeato tutta una serie di riflessioni che non sono rimaste per nulla solo nel campo teorico, hanno strutturato una cultura nella sua accezione più’ ampia e più’ pregnante.

Se noi tuttavia consideriamo con un minimo d’attenzione antropologica, al di là delle connotazioni più’ schiettamente confessionali, noi possiamo notare come uno dei significati ricorrenti del peccato originale, osservato soprattutto in una attenzione biblica, è proprio quello legato alla ‘ubris’ umana, alla onnipotenza dell’uomo che vuole essere come Dio. È questa una interpretazione costante data al peccato delle origini, riconosciuta dai padri della chiesa, dalle sottolineature catechistiche e dalla ricerca biblica più aggiornata[3].

Il passaggio dalla ‘ubris’ alla onnipotenza è molto facile ed è giustificato anche semanticamente. E’ vero che si passa in un altro universo in cui i giochi linguistici sono differenti, ma è pure vero che questo è consentito dalla riflessione di oggi che legittima l’uso di un termine estratto da un contesto per usarlo in un altro ai fini di rilevarne la somiglianza e le differenze. Si tratta di una operazione di  dialogo interculturale che porta a una prospettiva transculturale.

Nel nostro caso si tratta di vedere la superbia dei progenitori, tipica del racconto biblico religioso, per paragonarla con la onnipotenza del discorso freudiano.

E’ vero che i contesti sono diversi, le finalità linguistiche differenti, gli emittenti, i riceventi sono diversi: ma esiste anche una linea di congiunzione: quella che ha permesso a chi scrive di fare le associazioni che ho precedentemente ricordato.

E’ chiaro che queste associazioni coprono un registro personale e si iscrivono nella biografia del soggetto, ma è anche vero che questa storia è anche la storia del mondo occidentale, è la stessa storia di FREUD che non ha potuto non confrontarsi col mondo religioso, con il pastore e amico  Pfister, o con il mondo ebreo da cui proveniva e in cui era profondamente radicato[4].

Il voler essere come Dio del racconto delle prime pagine del Genesi diventa simile al desiderio dell’inconscio di sentirsi Dio.

Siamo così entrati nello spazio che più è caro allo psicoanalista, quello che riguarda questo mondo della onnipotenza che tanto occupa la dimensione inconscia e è alla base di molte personalità più o meno disturbate. Dico, “più o meno disturbate”, perché questa dimensione onnipotente è presente in tutti gli uomini, in aliquote diverse, a seconda delle fasi in cui uno è riuscito a elaborare questa situazione.

Chiamarla superbia, secondo la terminologia dei sette vizi capitali, vuol dire non rendere giustizia al termine onnipotenza che è molto più ricco e va al di là di una accezione puramente moralistica La onnipotenza nella dimensione psicodinamica è infatti collegata alle prime fasi di sviluppo e ha anche una dimensione strutturante unita come è alla dimensione narcisistica.

Sappiamo che, al di là di ogni disquisizione sul termine, rimarcando che si tratta di un semplice modello di analisi, il narcisismo rappresenta una prima fase di sviluppo in cui il bambino ha la possibilità’ di esperimentare questo mondo fantastico, molto divino, in cui si trova a essere intronizzato, al centro del suo piccolo universo familiare, punto di riferimento di una madre attenta, reuccio in un mondo ai suoi piedi.

Il superamento di questa fase è un momento importante che, con la scelta di un oggetto di amore, fa si che il bambino impari a scoprire l’altro uscendo cos ì dal suo guscio onnipotente.

Se questo momento è pure importante e foriero di molte soddisfa zioni rappresenta anche una perdita, vissuta a volte come un grande funerale: la perdita proprio della onnipotenza che coincide con il ridimensionamento delle proprie aspirazioni e, soprattutto con una aderenza maggiore alla realtà.

Questo passaggio non avviene quasi mai in maniera completa e in alcuni soggetti rimane un punto controverso nel proprio sviluppo psichico.

Questi non tanto ipotetici soggetti, (ciascuno do noi è un po’ così),si trovano a veder emergere la propria onnipotenza quando meno se lo aspettano[5].

Lo vedremo più dettagliatamente collegata all’ira, quando descriveremo l’esperienza di quella persona che sceglie di farsi tamponare per avere la soddisfazione di far pagare un sorpasso azzardato al suo avversario!

L’onnipotenza diventa così la possibile laicizzazione del vizio capitale per eccellenza: la superbia.

A chi scrive sembra di poter vedere in questo nuovo contesto una risposta agli interrogativi antropologici a cui la nozione di vizio cercava di riferirsi. Nel contesto analitico, la voglia di essere Dio e di trasgredire diventa, al di là dei connotati morali comunemente intesi, una delle costanti dell’inconscio di ogni uomo che deve fare i conti con queste istanze profondamente radicate in lui.

2. L’INVIDIA: UNA ESPERIENZA DELL’INCONSCIO

Etimologicamente invidia deriva dal latino “in-videre”: guardare male, biecamente. Si collega con un modo di “vedere” il mondo, le cose, se stessi in maniera distorta, non aderente alla realtà, è una lente deformante che offusca la corretta percezione delle cose. La invidia, dal punto di vista analitico, nasce dalla frustrazione, dal non avere.

Dalle famose pagine di Freud sulla invidia del pene da parte della donna, invidia che è alla base della bugia su cui una certa parte e della psiche costruisce le sue difese: la donna che non accetta di essere tale inventa, finge di essere quello che non è dando vita al quadro nevrotico, fino ai testi ormai classici di una sua allieva, M. KLEIN che in Inghilterra scrive pagine importanti sulla invidia e la gratitudine. Notiamo la importanza della BUGIA, TEMA DOMINAMTE NEL QUADRO NEVRIOTICO, collegata per direttissima con la deformazione della realtà riconosciuta dalla etimologia come il significato più importante da collegarsi alla invidia[6].

Come per la superbia, anche per questo “vizio capitale”, la prospettiva analitica lo mette alla base dello sviluppo, ai primordi della storia psichica e gli dona pure un importanza notevole nella determinazione di quadri patologici. Una forte invidia è alla base delle psicosi più agguerrite.

Ma soprattutto la invidia è collegata col potere distruttivo della mente che aggressivamente si pone nei confronti di “chi ha” osservati come potenziali nemici da distruggere per impossessarsi di qualcosa di molto importante.

Quanto la invidia sia presente nel quotidiano la psicoanalisi ha modo di verificarlo costantemente e il soggetto attento sa decodificare questo sentimento che, se forte, permea tutta la struttura dei desideri, mascherandosi abilmente in mille forme legittimatorie.

Questo che vale a livello individuale si può trasportare sulla sfera macroscopica, dove le nazioni intere si fronteggiano sulla falsariga di questo sentimento camuffato sotto le dizioni più o meno esplicite di legittimità giuridiche.

Un elemento importante collegato con la invidia è la idealizzazione: meccanismo psichico molto frequente e normalmente considerato come positivo. Eppure là dove c’è idealizzazione, quasi sempre, siamo in presenza di un forte sentimento di invidia.

Le persone che sono “sane” sono riuscite a costruire dentro di sé un buon oggetto e sono capaci di conservare l’amore per questo oggetto pur riconoscendone alcuni difetti.

“Quando esiste un disturbo a livello psichico, secondo la KLEIN, significa che il processo precedentemente descritto non si è compiuto bene. Spesso allora siamo in presenza di una idealizzazione eccessiva che crea sentimenti persecutori. Chi viene idealizzato infatti non riesce sempre a essere alla altezza delle aspettative del soggetto il quale, in presenza di difficoltà, o di difetti della persona idealizzata, cambia prospettiva e da un amore sviscerato nei suoi confronti passa a un odio a volte violento che lo porta a INVIDIARE e criticare. E’ in questo modo che subentra la invidia sempre a contatto con un atteggiamento onnipotente che viene meno e che conduce quindi a una crisi violenta di identità e di aspettative.

Questi processi, che sono alla base della struttura psichica, sono tremendamente pericolosi e fanno sì che i nostri rapporti amorosi, o più largamente “umani”, siano molto difficili, precari e a volte carichi di valenze distruttive.

C’è infatti un altro meccanismo frequentemente presente nei nostri rapporti, LA PROIEZIONE.

Quando si idealizza un oggetto di amore e capita quello che in breve ho descritto precedentemente, ci imbattiamo spesso con le persone che proiettano i propri sentimenti di critica e di invidia sugli altri. Ne scaturisce un ping-pong molto sottile e violento in cui le istanze distruttive troneggiano sul palcoscenico della gestione dei sentimenti e le energie vengono prevalentemente impiegate in difese o in attacchi piuttosto che essere utilizzate in maniera costruttiva.

La invidia eccessiva è così un impedimento, al godere le positività dell’oggetto.

“Il fatto che la invidia venga elencata tra i sette “vizi capitali-continua la KLEIN- ha una ragione psicologica ben precisa, anzi oserei dire che si ha la sensazione inconscia che la invidia sia il vizio peggiore, perché danneggia e guasta l’oggetto buono che e ‘ fonte di vita. Chaucer condivide questo parere e in THE PARSONS TALE dice: ‘L’invidia è senz’altro il peccato peggiore che esista; tutti gli altri peccati infatti sono rivolti contro una sola virtù, mentre la invidia è rivolta contro tutte le virtù e contro tutte le bontà’. La sensazione di aver danneggiato e distrutto l’oggetto primario menoma la fiducia dell’individuo di poter stabilire in futuro rapporti sinceri, di poter amare e di essere buono”[7].

Mi interessa qui sottolineare come la espressione enfatizzata che usano i moralisti per descrivere questo difetto dell’invidia paragonata alla “gramigna” che invade l’orto dei sentimenti umani, sia poi ripreso in chiave schiettamente laica da una analista come la Klein per esprimere lo stesso concetto in un contesto e con sfumature diverse.

3. L’IRA E IL NARCISISMO AGGRESSIVO

L’IRA di DIO ” è una espressione entrata nel vocabolario italiano  per significare qualcosa di immensamente sconvolgente e aggressivo, qualcosa che rivoluziona una situazione, qualcosa di esplosivo.

Se noi ci rifacciamo al contesto religiosa biblico noi troviamo che il Dio di Israele si adira. Il profeta Isaia afferma “Ardente è la sua ira, le sue labbra traboccano di furore, la sua lingua è come un fuoco vorace, il suo soffio come un torrente che   straripa e giunge fino al collo…Il suo braccio si abbatte nell’ardore della sua ira, in mezzo a un fuoco vorace, a un uragano di pioggia e di tempesta…Il soffio di Jahve, come un torrente di zolfo, infiammerà la paglia e il legno ammucchiati a Tofet” (Is.30,27-33). Così il profeta Ezechiele parla di fuoco, di tempesta di ira che si infiamma(Ez.20,33). Il risultato di questa ira è la morte, (2Sam 24,15 ss.)

Notiamo come qui sono tirate in scena la vita e la morte in un crescendo d’applicazione a Dio che non rifugge da queste passioni anche se poi la lotta si pone tra l’ira e la misericordia(cfr.Is.54,8ss.)

Abbiamo precedentemente affermato che la onnipotenza è una caratteristica esplorata e agognata dall’inconscio, questa pellicola che avvolge l’essere umano freudiano e che lo rende un po’ simile al Dio onnipotente disegnato da tutte le religioni, segnatamente anche dalla religione cristiana che si rifa’ ai racconti biblici che abbiamo appena ricordati.

E’ vero che i contesti sono diversi e non si può estrapolare in maniera grossolana, ritengo tuttavia che attribuire alla dimensione inconscia questa caratteristica divina non è per niente arbitrario o ideologico ma fa parte della scoperta antropologica più recente, almeno sotto la griglia di riferimento psicoanalitico. La clinica mette continuamente in contatto con questa parte inconscia che ogni tanto si lascia sfuggire qualche vestigia di quella divinità adirata in maniera onnipotente. La descrizione della ira di Dio precedentemente ricordata nel codice biblico, o nella dizione più schiettamente popolare, si affianca alla seguente descrizione fattami da un paziente.

Penso sia utile soffermarmi su questa narrazione perché’ permette di utilizzare un codice, appunto quello narrativo, che è molto più efficace quando si tratta di  descrivere le passioni umane.

Si tratta di una persona molto dotata, con atteggiamenti e un nucleo narcisistico assai pesantemente influente, la quale ama moltissimo le belle automobili che gli rappresentano la traduzione di una immagine grandiosa, molto vicina alla onnipotenza: proprio mentre sfida la vita e la morte in un duello, a volte aggressivo, a volte carico di soddisfazioni estetizzanti.

Questa persona oscilla tra il piacere di percorrere in maniera molto lenta le strade affollate in modo da guadagnare l’attenzione per se’ e per la propria vettura considerata parte di se’ e la rabbia di essere sorpassato, quando si sente desideroso di far notare la sua potenza (collegata con quella della sua macchina).

Una volta sogna di viaggiare con la sua potente automobile e di essere improvvisamente sorpassato da un’altra vettura. Il suo impulso è quello di innestare la marcia più Bassa per far prendere ripresa al suo motore, di sorpassare colui che ha osato sfidarlo, di porsi davanti alla macchina, di frenare e di farsi tamponare. La sua ira è violenta contro chi ha osato mettere in dubbio la sua potenza; il delitto di lesa maestà esige una pena adeguata per il trasgressore che deve essere immediatamente  riportato alla realtà: non si può impunemente violare l’ordine costituito, Dio non ammette di essere surclassato,nel suo potere, da un misero mortale.

Mi sembra facile leggere in questa codificazione dell’inconscio il corrispettivo dell’ira di Dio precedentemente ricordata collegata come è per direttissima alla onnipotenza depositata nelle pieghe più profonde della psiche umana, quella che per convenzione chiamiamo inconscio, seguendo la narrazione e il modello freudiano, ma che tuttavia, al di là di ogni paradigma, noi ritroviamo presente in molti desideri di noi uomini.

L’ira di questo genere la possiamo chiamare patologica se tradotta in atto; il patologico ci rimanda a qualcosa di “male”, di non armonico e che comunque necessita di una cura, quando è possibile.

La cura analitica, per coloro che ne accettano la dimensione terapeutica e non riducono l’analisi a una pura forma di conoscenza più o meno illuministica, si propone di curare, la dove il curare significa riportare in soggetto nella sua verità. Ma la verità del soggetto è identica a quella che il racconto biblico sottintende, la verità dell’uomo è che non è Dio. Al di là delle continuazione del racconto religioso, che in maniera complessa reintroducono la divinità, come dono attraverso il codice della GRAZIA, lo stesso messaggio afferma in maniera chiarissima la finitezza dell’uomo e la impossibilita di una equiparazione a Dio. Eppure, nelle pieghe più profonde dell’uomo stesso questo desiderio di essere dio è presente in maniera radicale, difficilmente estirpabile, solo ridimensionabile attraverso una cura di verità

4. LA LUSSURIA: L’ONNIPOTENZA DEL PIACERE

Uno dei significati etimologici di lussuria è sovrabbondanza, roba in più. E’ simile al termine ” lussureggiante”.

I moralisti hanno sempre collegato questo termine al PIACERE che denominavano come “delectatio venerea” ed era soprattutto contro questo che si accanavano. Era infatti uno dei campi in cui non si ammetteva “parvità di materia”, secondo il gergo dei manuali di teologia morale. Questa espressione significava che in questo campo non era possibile applicare la categoria del “peccato veniale”, lieve, tutto essendo catalogabile sotto la prospettiva del” peccato mortale”. E’ vero che, come era abituale in questa disciplina, entravano delle eccezioni e delle sottili distinzioni.

Su tutto però troneggiava il principio aureo della totalità e della assolutezza della non parvità di materia che – lo sottolineiamo – riguardava anche il desiderio.

Saltellando tra i due giochi linguistici, quello della teologia morale e quello che sto usando io in questo scritto, si può parlare di onnipotenza e di totalità La “delectatio venerea”, il piacere sessuale prende tutto per cui non si può sezionare, si deve usare un codice totalitario dell’ o/o del bene/male: non si danno sfumature.

E’ questo un atteggiamento molto infantile, riconducibile-dal punto di vista analitico- alle fasi molto precoci dello sviluppo, alla posizione schizzo paranoico, secondo il modello kleiniano o alle fasi onnipotenti infantili secondo una accezione più largamente freudiana. In tutti i casi siamo in presenza di una posizione rigidamente binaria, senza sfumature, in cui predominano particelle o/o, spada di Damocle dei sentimenti e delle emozioni.

Eppure il piacere sessuale è così sfumato, eppure il piacere sessuale è così complesso e si coniuga in così svariati registri che è difficile riuscire a schematizzarlo.

Qui subentra una riflessione che tocca il cuore del problema.

J.POHIER, un domenicano francese che per primo ha affrontato in maniera rigorosa i rapporti tra pensiero psicoanalitico e religione, tra psicoanalisi  e teologia, ha scritto pagine molto belle e importanti su questa problematica. Purtroppo sia in chiave cattolica che laica il suo pensiero non è molto conosciuto anche perché’ a un certo punto ha dovuto tacere[8].

Dal punto di vista cattolico, sottolinea Pohier, la sessualità è stata vista come un male, per lo meno fonte di grandissimo pericolo, esorcizzabile in vari modi e normata in maniera rigida e assolutista; è stata vista come il “regno del male“ da cui guardarsi, permessa solo in una istituzione rigidamente controllata come il matrimonio, asservita quindi ai fini istituzionali della procreazione, figlia della istituzione in cui sola può essere legittima.

E nello stesso tempo la sessualità in tutte le altre religioni è collegata con il divino, con la esperienza dell’ALTRO, è la porta di ingresso del giardino del piacere infinito o è addirittura il giardino stesso.

Non potete essere come dio, se mangiate di questo frutto morrete”: molte interpretazioni della pagina biblica hanno fatto centro sulla realtà sessuale vista come un tabù, un caso riservato a dio che non poteva essere toccata pena la morte.

Le interpretazioni più accettate oggi dal punto di vista antropologico vedono questo come conseguenza della “paura del piacere”, visto come qualcosa di tremendo e fascinoso: gli stessi aggettivi attribuiti a Dio come misterioso, perché non esauribile in nessuno schema interpretativo, troppo grande per essere compreso in alcunché, troppo potente per essere lasciato a briglie sciolte.

Da qui il peccato e la normativa tanto più rigida quanto proveniente dalla istituzione religiosa.

Nessuno oggi sostiene che non ci debba essere una normativa del piacere; Freud, accusato da ogni parte di sfrontatezza sessuale, ha, nella sua metodologia un rigore quasi puritano. Al principio del piacere si affianca il principio di realtà, non solo come elemento epistemologicamente irrinunciabile, ma anche come criterio di sviluppo e di normalità.

Non si vive nel solo principio del piacere, pena la psicosi.

Si apre qui un capitolo importantissimo ai nostri giorni: il rapporto tra etica e scienza, etica e epistemologia, etica e psicoanalisi[9].

Più volte mi sono soffermato su questo tema che ha costituito un mio interesse particolare. Rimando agli scritti più specifici sul tema e voglio in questa sede ricordare solo poche cose.

  1. Non esiste realtà umana senza una dimensione etica. L’etica prima di essere una riflessione sistematica sul bene vivere è un FATTO. Nessuno lo può lasciare totalmente da parte. Tutti, o a livello conscio o inconscio, la usano. Non si può lasciarlo un orto esclusivo delle confessioni religiose che la gestiscano a nome di tutti. Ogni cultura ha la sua etica che corrisponde più o mene al suo ethos. Ma non si da’ fenomeno culturale senza questi elementi.
  2. Anche nella operazione del conoscere è presente la dimensione etica[10]. Io non scelgo a caso una corrente di pensiero piuttosto che un’altra; la scelgo perché mi rappresenta qualcosa, perché “mi piace”, perché mi è utile.. La strategia dell’apprendimento e della distribuzione del sapere ha a che fare con l’etica. Ma il conoscere ha a che fare col “piacere”. L’operazione corretta dell’apprendimento avviene solo se il bambino si trova in una situazione “sana” in cui il piacere ha il suo posto nell’affetto della relazione. Senza questo non si conosce o si apprende in maniera distorto e patologica.
  3. C’e’ una etica del piacere a cui il peccato capitale della lussuria fa riferimento. Non ne condivido il reticolo strutturale in cui è inserito ma non è possibile non inserirlo in qualcuno. Non esiste il piacere puro o, al limite, la prospettiva del ” piacere puro” è pur sempre una prospettiva e quindi ha a che fare con una etica, Si tratta di esplicitarla non negandola. Si tratta di un’operazione riflessa in cui tutta la cultura laica di oggi è impegnata se non vuole più essere irretita da una etica onnipotente e totalizzante, oggi non più vista come rispondente alla crescita dell’uomo[11].

Note Bibliografiche

  1. G.PALO,La memoria etica  in :AA.VV.Smemorata memoria, Lugano 1990
  2. P.SCHOONENBERG,La potenza del peccato, Brescia 1970;per una riconsiderazione del peccato in chiave antropologica rimando alla voce PECCATO, da me curata in DIZIONARIO TEOLOGICO, Cittadella Editrice, Assisi 1974,pag.509/520
  3. A.M.DUBARLE,Le péché originel dans l’Ecriture, Paris 1967
  4. S. FREUDIntroduzione al Narcisismo,1914,7, p.443ss. Boringhieri, Torino 1980
  5. Sul problema del narcisismo si veda A. GREEN, Narcisismo di vita narcisismo di morte, Roma 1985
  6. M.KLEIN, Invidia e gratitudine, Firenze 1969
  7. M.KLEIN, o.c.pag.32 ss.
  8. J.M.POHIERRicerche di teologia e psicoanalisi, Cittadella, Assisi 1973
  9. G.PALO, Etica e psicoanalisi, in AA.VV. “De dignitate hominis” Fribourg 1985
  10. G.PALO, La bioetica nella riflessione e nella prassi medica, in AA.VV. “Il coma postanossico” Milano 1986
  11. G.PALOEtica e psicologia, una proposta di metodo per il superamento del malessere, Bologna 1991. L’arte del pensare (a cura di Palo G.)Torino 2007

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