Tra il Simbolico il Sacro e l’Analitico

Riflessioni scapigliate di uno psicoanalista eretico

di Gianangelo Palo, intervento all’interno del libro “Pharmakos”

Che cosa sente, cosa prova, cosa pensa una persona che si occupa di psicoanalisi, in quanto la frequenta, la professa, l’ama e la usa come dispositivo per leggere quello che le capita nel quotidiano e nel sogno, nella realtà e nella fantasia.

Ho accettato in questa prospettiva di offrire la narrazione di alcune emozioni che mi hanno abitato nell’essere presente alla rappresentazione di Pharmakos a Forlì e nell’osservare alcune pubblicazioni che i curatori dell’iniziativa mi hanno gentilmente fatto pervenire.

Non vorrei discutere con delle teorie che, secondo Bion, inducono lo sbadiglio o la noia o il pensare ad altre cose[1]. Vorrei procedere con una serie di sollecitazioni che si sono affollate nella mia mente.

Devo subito osservare che la cosa che mi ha maggiormente colpito è stato lo spettacolo, per la potenza delle immagini reali, per l’incisività della colonna sonora e per la discussione che si è intessuta dopo lo spettacolo, ascoltando le osservazioni, i pensieri, le positività e le critiche del pubblico che numeroso si è fermato a discutere. Per questo il mio punto di riferimento rimane la rappresentazione dal vivo più delle riflessioni teoriche che molteplici hanno affollato la palestra culturale del nostro tempo. Non si pensi che disprezzi le teorie, al contrario le considero degli strumenti che a volte vengono assolutizzati e non rispecchiano più la realtà. Ritengo invece che sia la vita il nostro punto di riferimento e ogni riflessione deve farne parte, ma soprattutto deve vibrare del collegamento con tutta la nostra realtà e non solo con la dimensione razionale.

Si aprirebbe qui tutto un capitolo sulla differenza tra il virtuale e il reale, tra la rappresentazione elettronica e il palcoscenico vivo. Lo lascio a un’altra occasione perché ora mi preme sottolineare alcuni pensieri che mi sembrano più significativi[2].

Ho parlato di pensieri perché in fondo è difficile non pensare soprattutto quando si è in procinto di scrivere un testo. Anzi credo sia impossibile non pensare, ma è anche vero che c’è pensiero e pensiero. C’è un pensiero colorato e un pensiero meccanico, c’è un pensare creativo e un pensare ripetitivo, c’è un pensiero calcolante – per usare una riflessione di Heidegger – e un pensiero meditante[3].

Ma in tutti i casi il pensiero ci costituisce, ci definisce. Nella cultura occidentale l’uomo è stato definito come l’essere che pensa, o meglio, per usare la espressione di Aristotele, l’uomo è l’essere attraversato dal logos. Per cui da ogni parte lo si prenda questo pensiero diventa preponderante, quasi invasivo e permea tutta l’esistenza umana. Rimando alla fine una riflessione sulla funzione del filosofo come essere pensante, quasi professionista del pensiero.

Ma se logos lo traduciamo non con pensiero ma con parola, operazione più che legittima, allora l’uomo non è più solo l’essere che pensa, anche nella solitudine più profonda, ma l’uomo è l’essere che parla, o per essere più fini nella traduzione, l’uomo è l’essere attraversato dalla parola.

Ma la parola esige per lo meno una dualità, bisogna essere in due per parlare; solitamente, pena l’essere ritenuti folli, si parla a un’altra persona. Si introduce qui un elemento che, nel mio modo di procedere è molto importante, si introduce la RELAZIONE, che ritengo essere fondante lo stesso pensiero, prodotto, interfaccia tra due esseri. La psicoanalisi, di qualsiasi scuola, sottolinea che la funzione paterna o materna o ambedue sono fondamentali nella costruzione del nostro apparato psichico ed è solo rispecchiandosi nell’altro che io mi riconosco e penso. È importante sottolineare come sia significativo questo gioco e come sia importante la persona che mi fa da specchio, perché influenza decisamente il mio essere come sono. È questo il paradigma su cui si fonda la pratica psicoanalitica, nell’incontro di due menti che pensano, che sentono, che soffrono e che gioiscono. Ma uno spettacolo è pur sempre un incontro con un altro che rappresenta qualcosa, che fa dei gesti, che si muove col suo corpo immerso nella musica. C’è, infatti, specchio e specchio. C’è uno specchio meccanico, che rimanda un’immagine meccanica e c’è uno specchio umano che rimanda calore, colore, musica e ritmo[4].

Io ritengo anche che la definizione di essere parlante, più adeguata di essere pensante, si possa anche affiancare a un’altra. Quella di essere simbolico: l’uomo è sì un essere che pensa, che parla, ma soprattutto è un essere che usa il simbolo, anzi è lui stesso un simbolo.

Merita qui di soffermarsi per chiarire questa posizione. Io ritengo che la dimensione maggiormente costitutiva dell’essere umano sia il simbolico, dove per simbolo non intendo il segno che mi rimanda a qualcosa d’altro, la bandiera, uno stemma… per simbolo io intendo la relazione nella sua dimensione più profonda. Etimologicamente, infatti, sappiamo che simbolo deriva da quella tavoletta che veniva spezzata in due, un pezzo veniva dato a uno, l’altro pezzo a un altro; si partiva per un viaggio e al ritorno, se tutto andava bene, i due si ritrovavano e ricongiungevano la tavoletta. Questa operazione di messa assieme, di relazionare un pezzetto con un altro è l’operazione simbolica. Il simbolo mette assieme (syn ballo) mentre il separare (dia ballo) è l’operazione contraria, è il diabolico per eccellenza[5].

Questa riflessione sul simbolo è importante per la prospettiva che voglio assumere nel descrivere quello che ho provato e che ho pensato e che ora “parlo”. Si noti come l’essere pensante diventa parlante, per prediligere poi il simbolico, oppure proprio perché è tale (simbolo) può mettere assieme il pensiero, farlo diventare parola e poi anche riposare nel simbolo.

Infatti, mi vengono in aiuto due persone molto importanti per la mia vita: RICOEUR e PANIKKAR.

Il primo dice che il simbolo ci fa pensare (nous donne à penser), cosa che è profondamente vera proprio perché il pensare è una potente e complicatissima operazione di relazione a livello biologico, a livello psichico e a livello culturale[6].

Ma Panikkar ci suggerisce che il simbolo ci libera dal pensiero, ci permette di non pensare proprio mentre esperimentiamo la realtà più profonda di noi stessi. L’amore, infatti, ci può liberare anche dal pensiero e sarebbe ben penoso fare i calcoli proprio mentre faccio l’amore[7].

Pharmakos mi ha permesso di vivere questi due momenti, mi ha liberato dai pensieri, rompendo i codici interpretativi fissi e rigidi, mi ha indotto a esperimentare un’emozione, che però non ha ucciso il pensiero, dato che anche adesso lo sto usando per comunicare con chi leggerà queste brevi note.

Che cosa c’entra il SACRO con tutto questo?

Bisogna intendersi su cosa si intende per sacro, rompendo così una caratteristica del sacro stesso che non sopporta definizioni. Perché la definizione appartiene all’apparire della ragione che crea distinzioni, che delimita i significati, che lavora col principio di non contraddizione[8].

Per me il sacro è l’ambivalente, il non definibile, l’indifferenziato, il numinoso che eccede l’esperienza normale. Non è il religioso anche se è parente, nel senso che la religione ha cercato di contenere il sacro, di codificarlo attraverso il rito. Tuttavia la somiglianza che più mi colpisce e che io uso quando maneggio il sacro, almeno dal punto di vista delle descrizioni, come anche adesso sto facendo, è il parallelo con l’inconscio.

Anche l’inconscio è un po’ pre-umano, anche se fa parte costitutiva dell’uomo, anche l’inconscio è indifferenziato, come il sogno mette assieme i contrari, condensa realtà non razionalmente condensabili, eccede la ragione. Si trastulla col mito, anzi può prevalentemente essere capito solo col mito, che a sua volta usa il rito.

Ecco allora l’affinità che io colgo nella rappresentazione di Pharmakos di Città di Ebla e il sogno di un paziente che mi crea le stesse attitudini interpretative, nel senso che mi fa pensare, ma che mi libera anche del pensiero perché mi immette in un mondo, quello della follia o dell’inconscio, in cui non si pensa ma si vive un’esperienza che eccede il pensare.

È questa la caratteristica dell’esperienza poetica là dove un termine fora il campo razionale della sua corretta interpretazione per aprire altri orizzonti, più liberi, più creativi, più.. folli.

Ecco allora che in un primo momento la reazione allo spettacolo è uno spaesamento, un non capire, ma poi subentra uno spazio lasciato al vedere, al sentire, al gustare il sapore di un movimento, di un corpo, di una musica. Entriamo in una prospettiva che non tocca la ragione che continuamente insinua la ricerca di un significato per giungere a un momento in cui il significato non è più impellente e subentra l’emozione. Il simbolico fa da padrone e si sintonizza con le nostre zone più profonde, attivando la paura e la felicità, la tenerezza e l’aggressività, l’amore e l’odio.

In questo modo mi pare che Pharmakos realizzi molto bene l’ambivalenza presente nel termine stesso, proprio mentre cerca di rappresentarlo sul corpo, che è il massimo del simbolismo, proprio mentre è il depositario principe dell’inconscio.

Mi interessa qui riportare anche un passaggio epistemico e metodologico che la pratica psicanalitica ha iniziato. Prima si era molto attenti al quadro psicopatologico, alla definizione precisa del quadro nosografico che guidava poi i percorsi terapeutici, oggi si è passati dal quadro al percorso, nel senso che la pratica quotidiana è diventata importante quanto e più dell’inquadramento nosografico pur significativo. Si è realizzato quel passaggio dalla rigidità del logos alla libertà e alla ricchezza del mito. Prediligendo il sogno e la dimensione poetica si è accentuata l’importanza della ricchezza dell’inconscio, che nel tempo si può mostrare con molte facce e può arricchire così la possibilità di sintonizzazione. Sintonia che avviene maggiormente col simbolico che con la ragione. Si è abbandonato il rigore della causalità e dei nessi causali per prediligere la ricchezza delle contiguità, delle somiglianze, dei nessi creativi che a volte oltrepassano il rigore della logica.

Mi piace qui ricordare un passaggio del bel libro di Salomon Resnik, che incrocia il sacro e l’inconscio in un capitolo che si intitola “L’oscurità labirintica dell’inconscio”, dove già la messa assieme di oscurità e di labirinto evoca pensieri e sensazioni molto ricche. «Lo psicoanalista che si avventura a penetrare l’oscurità labirintica dell’inconscio – dice Resnik – deve assumere con prudenza e delicatezza la sua trasgressione di fronte a uno spazio in certo modo sacro. L’intimità della cosa è sacra, fare luce o parlare agli enigmi della notte è una forma di profanazione. Il termine latino fanum, da cui deriva “profano” indica all’origine un luogo sacro, il tempio. Il profano sarà dunque colui che è escluso, fuori dal dominio del sacro: il “non iniziato”. Ogni corpo ha dei confini sacri, ogni corpo è un tempio. È in questo modo che lo psicoanalista ha anche bisogno di riti di iniziazione adeguati, per permettergli di entrare in contatto, di “profanare” lo spazio sacro dell’altro. Nella stessa maniera, egli dovrà preservare il proprio spazio sacro grazie al setting. E in entrambi i casi egli dovrà sviluppare un’etica delle frontiere che gli permetterà di preservarsi da una curiosità eccitante e sterile»[9].

Ho usato questa lunga citazione perché mi sembra importante per esprimere quello che ho provato nella visione dello spettacolo, proprio mentre ne osservavo le affinità con una dimensione psicoanalitica che ora voglio riprendere per punti.

Valentina, la protagonista della scena, rappresenta simbolicamente la dimensione labirintica dell’inconscio e del sacro. Labirinto perché le entrate e le uscite non sono lineari, labirintico perché non c’è principio di non contraddizione in atto, labirinto perché il vero non è codificato, ma va ricercato nel percorso di tutto lo spettacolo. Spettacolo che non chiude il codice del vero e del falso, ma che lascia aperto il linguaggio del mistero. In questo senso siamo in presenza dell’oscurità che non è negativa, come una certa ragione ci può far pensare, ma che costituisce proprio l’otre dell’essere. È l’oscurità ricca che alla base della realtà si è tentato più volte di dimenticare, di uccidere o di svilire attraverso lo svelamento, ritenuto uno degli elementi importante di verità.

Mi piace qui ricordare una duplice accezione di verità, quella collegata ad aletheia (mondo greco), che spinge a togliere il velo, a svelare qualcosa che è sotteso e nascosto nelle pieghe del drappo simbolico, con tutto quello che questa impostazione sottintende. Una verità che c’è già e che va scoperta, piano piano, lungo un percorso che potrebbe essere collegato con un esodo di biblica memoria, come cammino e passaggio dalla schiavitù alla libertà.

E poi c’è una verità emet (mondo ebraico) che invece si fa, deve essere costruita con la vita, non tanto con la ragione, ma con le opere in una concretezza che rimanda, sempre in campo biblico, alla ricchezza simbolica della cultura ebraica. Notiamo per inciso come la prima accezione è soprattutto greca e la seconda ebraica, con le diverse antropologie che l’accompagnano[10].

Mi pare che questo possa aiutare a leggere il linguaggio di Pharmakos, che può aver bisogno di uno svelamento e che tuttavia è costruito anche come un’azione che costruisce un percorso, diverso dalla pura ragione ma più orientato al sacro, come codice espressivo ricco di ambivalenza.

Ma tutto questo va assunto con prudenza perché siamo in presenza di un sacro, tremendo e numinoso, che spaventa e che esige una ragione che lo imbrigli.

Si passa qui alla dimensione sacra del corpo, ritenuto un tempio che non si deve profanare e che deve essere accostato con delicatezza e con prudenza per non vanificarne il mistero. Mi pare qui particolarmente appropriata la riflessione che mi è venuta spontanea applicare allo spettatore, ma anche ai confezionatori dell’opera che hanno usato, a mio parere, questa delicatezza pur nella durezza di alcune scene. Si sono accostati al mistero con un linguaggio sacro, mantenendo palpabile l’ambivalenza del farmaco nella sua dimensione di medicamento e di veleno. Il tutto in un’attitudine di cura che mi pare rispondere all’esigenza etica ricordata da Resnik nella rigorosa accettazione del setting, che psicoanaliticamente è il quadro indispensabile per l’azione terapeutica e che, dal punto di vista dello spettacolo, è la cornice in cui tutto viene vissuto e mostrato.

Vorrei concludere con la sollecitazione introdotta da una problematica importante che vede in atto il rapporto tra logos e mito, tra ragione e poesia, tra rigore logico e immaginazione.

Mi pare un punto che viene a essere collegato con la fruizione di uno spettacolo come quello che siamo trattando.

Tutto si concentra sul simbolo come capacità di unire e non come funzione differenziante. Tutto si fonda sulla sottolineatura della RELAZIONE come elemento fondante il simbolo stesso che è relazione. Si tratta allora di funzionare non in O/O ma in E/E, attraverso un uso della ragione che non viene assolutizzata, ma che si affianca all’immaginazione, al mito e alla poesia.

Mi sembra utile ricordare un passo del grande Leopardi nello Zibaldone il quale dice: «Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto e sentito i poeti, non può assolutamente essere un grande vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai debole, di penetrazione scarsa, per diligente, paziente, e sottile, e dialettico e matematico ch’ei possa essere; non conoscerà mai il vero, si persuaderà e proverà colla possibile evidenza cose falsissime… Non già perché il cuore e la fantasia dicano sovente più vero della fredda ragione, come si afferma,… ma perché la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura e svilupparlo. L’analisi delle idee, dell’uomo, del sistema universale degli esseri, deve necessariamente cadere in grandissima e principalissima parte, sull’immaginazione, sulle illusioni naturali, sul bello, sulle passioni su tutto ciò che vi ha di poetico nell’intero sistema della natura». Leopardi poi prosegue con un’ulteriore considerazione sulla natura: «Chi non conosce la natura, non sa nulla e non può ragionare, per ragionevole ch’egli sia. Ora colui che ignora il poetico della natura, ignora una grandissima parte della natura, anzi non conosce assolutamente la natura, perché non conosce il suo modo di essere.» (G. Leopardi, Zibaldone, 4 ottobre 1821).

Si noti come attraverso il concetto ampio di natura Leopardi ci dica dell’importanza del poetico che per noi è il linguaggio delle immagini, ma ci dica anche come è importante la ragione, il tutto deve essere messo assieme attraverso quella operazione del syn ballo che abbiamo cercato di evidenziare e che la rappresentazione di Pharmakos ha ben messo in luce. Luce è un altro dei tanti elementi che compongono il mosaico, luce è anche una metafora che voglio usare per azzardare un’interpretazione, che come ogni interpretazione non è altro che una mia lettura della realtà, ma che come ogni interpretazione è potente se incrocia il sentire di altri e crea una risonanza, una sintonia.

Mi pare che la visione di questo “spettacolo” possa creare una nuova luce che ingenera un cambiamento nel nostro modo di pensare, di essere e di vivere. Un cambiamento che è una nuova nascita a una nuova luce, quella della considerazione dell’uomo come essere simbolico e delle ricchezze del simbolo come otre, in cui vivere le profonde esperienze della nostra esistenza misteriosa, ma pur anche bella.

Bibliografia:

[1] W. Bion, Memoria del futuro. L’alba dell’oblio, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2007.

[2] G. Palo, La Comunicazione nel mondo contemporaneo, in «Bioetica e cultura», VIII, 2 (1999).

[3] M. Heidegger, L’abbandono, trad. it., Il Melangolo, Genova 1988.

[4] G. Palo, Psicosi un problema di metodo, Psicomotricità, Milano 2003.

[5] G. Palo, L’arte del pensare. Sensibilità estetica e stato adulto della mente, Tirrenia Stampatori, Torino 2007.

[6] P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2003.

[7] R. Panikkar, La porta stretta della conoscenza, trad. it., Rizzoli, Milano 2005.

[8] U.Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 2005.

[9] S. Resnik, Biografie dell’inconscio, trad. it., Borla, Roma 2008.

[10] G. Palo, in AA.VV., La mente dell’anima. Incontri al confine tra esperienza del sacro e psicoanalisi, Aracne, Roma 2008.

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