La Supervisione come modulazione dello stress

Vorrei raccontare delle esperienze nel tentativo di comunicare dei vissuti che mi hanno occupato in molte supervisioni di gruppi istituzionali.

I pensieri che cercherò di esprimere sono il frutto anche di supervisioni individuali o di “gruppi privati”, ma cercherò di concentrare la mia attenzione narrativa soprattutto pensando ai tanti gruppi istituzionali che ho supervisionato in un periodo più che trentennale. Ritengo che la supervisione, dispositivo indispensabile per la psicoanalisi e la psicoterapia, sia poco frequentata negli altri ambienti, penso molto inopportunamente, perché credo sia una delle forme più efficaci di formazione.

Come avviene una supervisione con le caratteristiche che io cerco di imprimere a quest’esperienza:

Nel mio caso il supervisore è di formazione psicodinamica con esperienze di terapie a livello individuale e di gruppo, è attento a una dimensione psicosociale con un’antenna vigile su di una frequenza etica. Il discorso delle norme, viste solo come i mezzi per raggiungere o preservare dei valori, è affrontato con la descrizione iniziale del setting e viene poi frequentemente rilevato come elemento indispensabile per sviluppare una coesione di gruppo e per superare le scissioni inevitabili nelle persone che spesso si occupano del dolore psichico.

Il supervisore non è uno che si pone super, in alto, che giudica il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, in modo categorico, io lo vedo invece come una persona che stabilisce un clima di accettazione e che stimola il dialogo.

Penso che ci siano due tipi di dialogo che tendono a superare il monologo, un dialogo dialettico che inevitabilmente si produce in un gruppo e un dialogo dialogico che ritengo un risultato cui il gruppo arriva quando fa un’esperienza di possibile espressione di propri pensieri e di propri vissuti, sempre all’insegna del non giudizio.

Il non giudizio non significa non avere dei modelli con cui confrontarsi, significa accettare le diversità attraverso la spiegazione, il confronto, l’accettazione del diverso, appunto il dialogo. Assieme ai vari modelli, analizzati nella loro costruzione, si cerca allora di far emergere il meta modello che è quello del dialogo costruttivo.

Se il gruppo avverte che questo è l’assetto mentale del supervisore, quasi per miracolo (ma noi sappiamo che non lo è perché lo possiamo spiegare in vari modi) lo comincia a vivere come gruppo e allora si fa strada un altro modo di vedere se stessi, gli altri, la realtà e anche la propria professionalità.

Solo così il gruppo apprenderà la propria forza nel descrivere e affrontare i casi che saranno raccontati e trattati, non come compiti da sottoporre al supervisore, ma come spunti da trattare assieme alle forze che il gruppo stesso avrà appreso a modulare.

Tutto questo sicuramente ha a che fare con la modulazione dello stress che solitamente all’inizio è molto elevato e che, col passare del tempo e delle esperienze bonificanti della supervisione, si riduce a livelli più sopportabili.

La percezione di questo risultato si esperimenta quasi fisicamente nell’acquisizione di una dimensione estetica che i partecipanti avvertono e che solitamente si manifesta con espressioni come “che belle ore abbiamo passato assieme” oppure “il tempo è passato veloce”, conclusioni più valide di tutti i test che noi possiamo fare. Vissuto che, a livello controtrasferale, sarà presente e verificato nel supervisore che finirà queste esperienze con la stessa sensazione di bellezza e di bontà conservata nella sua mente.

Vorrei proporre un collegamento con le istanze fondamentali della Pnei che ho cercato di evidenziare dal punto di vista epistemologico ed etico in uno scritto che compare nel volume curato da Francesco Bottaccioli “Mutamenti nelle basi delle scienze”.

I tre punti chiave evidenziati sono

  • Il superamento del concetto operativo di causalità e il venire alla luce del modello informativo, con la sottolineatura dl processo comunicativo come ben evidenziato nella immagine del network.
  • Il superamento del dogmatismo, la carta geografica non è il territorio
  • La dimensione etica come collegamento tra il dire e il fare in una dimensione circolare.

Come un’impostazione che tiene conto di questi elementi si concretizza nella supervisione?

  1. Se il supervisore non è più il detentore della verità, il soggetto supposto sapere, ma è invece il facilitatore e lo stimolatore delle potenzialità di ciascuno e soprattutto del gruppo, ecco che la dimensione comunicativa acquista una rilevanza enorme e la causalità non viene sconfitta ma si integra nella circolarità comunicativa. La discussione di un caso diventa il motivo di coinvolgimento dei saperi e dell’esperienza di tutti i partecipanti che, sentendosi apprezzati e coinvolti, attivano tutte le potenzialità potenti connesse con la dimensione gruppale. La mente di gruppo diventa così un potente mezzo per la narrazione e per le proposte che il gruppo stesso si trova a evidenziare. Si avverte così una singolare esperienza, accorgendosi di avere potenzialità prima nascoste e ora attivate, la gratificazione conseguente sprigiona effetti benefici che irrorano la mente. Le soluzioni, prima oscure e indecifrabili, diventano più evidenti e suscettibili di essere proposte, verificate e controllate. Tra una seduta e l’altra s’inizia così un procedimento che è molto simile alle procedure scientifiche. Si propongono delle ipotesi che poi vengono verificate nel tempo, non, solo della supervisione, ma della realtà di ogni giorno e alla seduta seguente si portano i risultati che non necessariamente devono confermare la ipotesi, possono anche non validarla: ma questo non inficia il procedimento che, proprio perché trasparente e riproducibile, può servire per ulteriori casi. Si attua così quella circolarità comunicativa che non riguarda solo la comunicazione nel gruppo ma anche la verifica sperimentale. La realtà viene così a essere immessa nella esperienza comunicativa che non si ferma al tempo degli incontri ma viene dilatata ai tempi della vita e della professionalità. Si potrebbe parlare delle diverse professionalità, proprio perché il maggior guadagno, a mio avviso, avviene quando i gruppi sono ricchi, non di una sola dimensione professionale ma di molteplici esperienze. L’interdisciplinarità diventa così fonte di ricchezza perché arricchisce il network che si trova a essere maggiormente la fotografia della realtà complessa.
  1. Quanto precedentemente descritto non permette l’assunzione di una dimensione dogmatica ma la considerazione che la verità è plurale e i vari modelli, anche scientifici, sono da continuamente e verificare con un confronto empirico con la realtà. A questo punto la presenza di varie professionalità arricchisce la possibilità di non fossilizzarsi su di una sola posizione, ma di accogliere le varie prospettive, in un clima di ascolto e di condivisione. A questo punto è per me illuminante l’esperienza di supervisioni che chiamerei mono disciplinari, dove tuttavia sono presenti orientamenti diversi. Penso alla dimensione psicoterapeutica con i vari orientamenti ormai codificati nelle varie scuole di appartenenza. Un po’ di tempo addietro era quasi un’eresia far partecipare soggetti con appartenenze diverse, ricordo come un freudiano non poteva accompagnarsi a uno Junghiano. Oggi le cose sono diverse e ci si accorge come le varie visioni possono illuminare la complessità dei vari casi. Ma questo che può essere paragonato un po’ alla modalità con cui la PNEI affronta i problemi, dal punto di vista psichico, neurologico, endocrino e immunologico, non significa fare di ogni erba un fascio, accogliere tutto senza una bussola che orienti nella complessità. La soluzione a questo problema io la chiamo la transdisciplinarità come funzione unificante della mente individuale e di gruppo che permette al complesso di rimanere tale ma di essere letto e affrontato. La esperienza soprattutto gruppale della supervisione, permette di dare contenuto operativo a questa parolina. Transdisciplinare è composta da trans e da disciplinare. Trans etimologicamente è composta dalla radicale indoeuropea TRA che significa soprattutto passaggio, transito, trasporto… Ricordo come sia anche presente in TRAUMA, molto spesso attivo nei casi portati in supervisione o addirittura nel gruppo stesso. Il trauma spesso è visto come un momento negativo, un vuoto: si può vedere anche come un’opportunità che riempie i vuoti attraverso l’attivazione di un cambiamento. Questo è frequente dal punto di vista psicoterapeutico, ma è anche presente nel gruppo di supervisione che può apprendere a guardare al trauma in modo diverso scorgendone i lati produttivi.
  1. Arriviamo alla dimensione etica sulla quale mi vorrei soffermare perché più bistrattata o non sufficientemente tenuta in considerazione. Penso a una dizione che chiamo volgare di etica collegata al vissuto sessuale o alla dimensione confessionale o religiosa. Ritengo invece che l’etica laicamente intesa sia un’attitudine fondamentale per ogni processo terapeutico, di apprendimento o di vita. Penso a un’etica della conoscenza. Ogni azione è collegata al conoscere, ogni atto è un atto che mette assieme la mia mente e la mia azione. Proprio perché sono un essere unitario, proprio perché mente e corpo sono un’unica realtà. Se io penso questo, la mia azione sarà orientata in una certa direzione, a volte potrò non essere coerente, ma la mia impostazione non può non tenere conto del mio pregiudizio. Uso questo termine non moralisticamente ma secondo un’accezione collegata con la riflessione ermeneutica. La quale ci dice che è impossibile prescindere dalla precomprensione o conscia o inconscia. Io mi muovo nella vita guidato anche da questo. Persino quando decido di fumare una sigaretta devo fare i conti con quello che penso sia un atto neutro, salutare o malefico. E’ per questo che ritengo importante un’etica della conoscenza che, per esempio, mi fa dire che alcuni paradigmi scientifici non sono più così validi e devo rivederli, mi spinge a essere attento a dimensioni che prima non prendevo considerazione, mi sottolinea che lo stress ha una dimensione biologica e una sociale, che il DNA può essere influenzato dal fenotipo e ammette una circolarità comunicativa con un ritorno della comunicazione stessa attraverso un modello cibernetico. Questo io lo devo sapere, perché ha fatto parte di una trasformazione del modo di conoscere la realtà che non può essere ignorato. Questo sapere cambia il mio modo di operare su vari livelli, anche a livello della supervisione che è un potente strumento di conoscenza soprattutto nel suo influsso metodologico. Intendo che in questa esperienza s’impara a conoscere non in maniera astratta; quello che si apprende passa dalla propria mente e dalla pancia e si innesta in un processo conoscitivo che abbandona gli schemi nozionistici per collegare le emozioni con la mente, il corpo con gli affetti. E’ per questo che il supervisore, sposando un modello relazionale in cui la comunicazione non è a senso unico, in cui la circolarità è presa come norma comportamentale, propone un’etica che mette assieme l’enunciato con la pratica, il pensiero con la vita, in una rete di pensieri e di emozioni che ne fanno un’esperienza sana e bella.

A questo punto il gruppo esperimenta il superamento dello stress o la sua modulazione, proprio come viene modulata la dinamica di gruppo che diventa il contenitore di questa esperienza e di questo cambiamento. Forse sarebbe utile misurare tutto questo con la modulazione del cortisolo, si può fare, ma penso sia già importante verificare come il vissuto dei partecipanti dica chiaramente che la bilancia dello stress è entrata in funzione attraverso una rimodulazione dello stress stesso.

BIBLIOGRAFIA

  • Bottaccioli F.(a cura di), Mutamenti nelle basi delle scienze, Tecniche Nuove, Milano 2011
  • SHARPE Me., The Third Eyre Supervisioni of analitici Groups, Routledge, London 1995 Trad It. Il terzo occhio, Astrolabio, Roma 1997

Lascio un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *