La formazione: un problema comunicativo

CONCETTUALIZZAZIONE E RIFLESSIONE SULLA FORMAZIONE

 

                                        “Le scienze che si occupano degli esseri viventi devono necessariamente essere inesatte per poter restare rigorose”(M.Heidegger)

La dichiarazione dei propri interessi penso sia la operazione preliminare per qualsiasi comunicazione che si ponga in dimensione rispettosa dello stesso processo comunicativo.

Questa frase appena scritta ha sotto tutto un mondo di riflessioni, di prese di posizioni, di vissuti che è difficile esplicitare in poche righe. Si può tuttavia tentare di farlo, con una forte sottolineatura del tentativo.

Richiamandosi alla teoria della comunicazione che vede operanti un emittente un ricevente e un codice possiamo affermare che è difficile che una qualsivoglia comunicazione sia priva di interessi. Ma la prima operazione necessaria è quella di specificare cosa si intende per interesse. Si potrebbe a questo punto rimandare a trattazioni specifiche , per es. alla classica trattazione di HABERMAS in “Conoscenza e interesse” e risolveremmo immediatamente il problema. Immediatamente ,ma solo apparentemente, perché riuscire a tradurre quello che l’illustre autore francofortese dice sul problema legato all’interesse, richiederebbe uno sforzo notevole.

Posso in via provvisoria esplicitare che per interesse in questo mio scritto intendo le coordinate storiche culturali dell’emittente che hanno fatto si che colui che comunica prediliga un linguaggio piuttosto che un altro, usi determinati termini in relazione alle proprie aree di interesse, parli una lingua piuttosto che un’altra, abbondi di citazioni o non ne faccia assolutamente…..si potrebbe continuare in un ampio elenco che tuttavia restringo a un ultimo interesse che io ritengo molto importante :  si tratta dell’interesse comunicativo. Io ho interesse a comunicare con chi legge o con chi ascolta, preferisco perdere in precisione ma comunicare ,che essere rigorosissimo e non comunicare. Oscillo tra quello che uso chiamare il logos e il mito.

E’ proprio per questo che non posso non dire che io mi occupo di psicoanalisi in dimensione clinica e in chiave teorica, che provengo da una formazione filosofica, attento alla dimensione conoscitiva e dunque epistemologica, appassionato dell’etica vista come la possibilità di unire la dimensione riflessiva teorica con l’agire. Questi interessi costituiscono le mie strade, i miei punti di riferimento, la guida delle mie riflessioni e la base di quello che vi dirò.

Sono soprattutto interessato al METODO, visto come la dimensione laica dell’etica.E’ questa persona che vi parla della concettualizzazione e della riflessione sulla formazione. Questo modo di presentarmi è già carico di significato per tutto il problema che concerne la formazione.

Intendo procedere con una serie di  parole  che faranno da guida al mio parlare.

  1. Parola e termine: Il concetto e il pensiero
  2. La comunicazione e la formazione: problema di metodo
  3. Asterischi etici

1. PAROLA E TERMINE: IL CONCETTO E IL PENSIERO

C’è un tipo di linguaggio, quello computerizzato, per esempio, che usa termini. Il linguaggio binario è perfettamente univoco e non esistono aloni semantici di possibile CONFUSIONE: io dico che “uno più uno fa due”: sono in questo genere di linguaggio e uso dei termini. Se io parlo di una macchina so perfettamente a cosa mi riferisco e se uno è a conoscenza del modello in questione non può che pensare alla stessa cosa che penso io. Questo tipo di linguaggio, molto rigoroso, è quello che per molto tempo è stato ritenuto essere il linguaggio tipico della scienza, perfettamente riproducibile e comprensibile da chi possiede le chiavi dei codici usati. Questo è il TERMINE.

La PAROLA non  obbedisce alle stesse leggi. La parola non è univoca, è polisemica, ha diverse letture a seconda delle sfumature sia dell’emittente che del ricevente, si entra nel mondo del significato che è molto complesso e ricco pur nella sua difficoltà.

La formazione può essere vista come un termine o una parola.

Se è un termine la si affronterà attraverso un preteso rigore in cui tutti debbono convenire pena o la incapacità comunicativa di chi gestisce questo termine e la incapacità’ ricettiva di chi lo riceve.Se è una parola la complessità del mondo della parola farà perdere un po” il rigore a vantaggio della creatività’ che a volte può’ diventare anche sbavatura, incertezza, pressappochismo, confusione, caos.Tutti questi codici: sbavatura caos…fanno parte del mondo delle parole, il mondo dei termini non ammettono queste incertezze o peggio queste confusioni.

La cultura occidentale(la nostra!),ha soprattutto preso il pensiero come qualcosa che afferrava, non a caso in tedesco il termine è “begriff” e in italiano è “concetto” che significa “cum-capere” nella linea “prensile” dell’afferrare. Questa volontà’ di potenza che si traduce nella precisione e nel rigore che non ammette sbagli, ha fatto parte anche dei concetti inerenti alla formazione: basti pensare alla dimensione autoritaria collegata con una visione della verità’ unicamente intesa, come termine che ciascuno possedeva o doveva possedere, codificata in un Dio che incarnava questa visione delle cose, dio autorità, onnipotenza, rigore e precisione. Questa maniera di “concepire” la verità diventa molto importante coniugarla con tutta una serie di prese di posizioni riguardanti anche la formazione.

Si pensi alla differenza tra la verità’ greca (aleteia) che significa VISIONE, da cui teoria, scopo -tutti nomi legati alla radice che confluisce nel vedere -e la verità’ ebraica(emet)che significa FARE. L’una posizione tesa alla dicotomia tra teoria e prassi, tra pensiero e azione, tra mente e corpo. L’altra più’ vitale che considera la verità come fare. La verità non si pensa solamente, la verità si fa pensando.

Sarebbe interessante stabilire tutte le “relazioni” esistenti tra le due antropologie, perché in fondo si tratta di questo: un modo di concepire la verità è sorretto da un modo di vedere l’uomo, la realtà e conduce determinate pratiche. Si pensi alla complessità di questa situazione.

Noi oggi abbiamo operato alcuni salti epistemologici.

Tutti noi-penso di poter dire-credoniamo alla necessità di superare un modello dualistico mente -corpo ,soggetto-oggetto, corpo-psiche…Eppure funzionano ancora dei pregiudizi difficili a far morire, depositati a livelli profondi degli individui e della cultura.

Si pensi al modo spesso usato di descrivere l’uomo come corpo separato dalla mente:

  • la conoscenza come una conoscenza oggettiva,
  • la certezza di trovare le leggi  universali del funzionamento della mente,
  • la consapevolezza di definire le cose come sono in sè e non come appaiono,
  • la spinta a credere che il linguaggio sia uguale a quello di cui parla, che la mente sia fatta di mattoni, con la metafora della costruzione di un edificio in cui si distinguono gerarchicamente le fondamenta fino ad arrivare al tetto.

Spesso si parla come se il punto di partenza della attività mentale sia le sensazioni, poi la percezione e poi il pensiero. Si crede che il pensiero sia qualcosa che non ha niente a che fare con la affettività. Tutti questi  “pre-giudizi”  che da un punto di vista teorico sembrano superati, di fatto sono operanti in una serie di scelte pratiche che contraddicono la premessa principale (si veda il rapporto conscio/inconscio, come problema epistemologico).

Tutto questo ha una rilevanza enorme nella maniera di concepire la formazione e poi di attuarla.

Si pensi solo alla polarità TECNICA/RELAZIONE che poi è stata da noi descritta nella polarità esistente tra PAROLA e TERMINE: ci sono scuole che puntano sulla tecnica per essere scientifiche, ci sono scuole che prediligono la relazione per essere più aderenti alla realtà. Il problema è come le polarità si mettono assieme per un nuovo modo di vedere la scienza non più solo fatta di rigore di termini, ma anche ricca di metafore sull’umano.

Vedere come si articola questa polarità ritengo sia il compito principale di ogni riflessione sulla professionalità e sulla formazione per rispondere ad alcuni interrogativi di fondo che oggi emergono sempre più acuti.

Per esplorare in maniera più narrativa la complessità di questa problematica, cerco di legarla a una realtà attualmente in atto, la dimensione comunicativa, sottolineandone l’aspetto metodologico che ritengo essere carico di spunti non solo per quanto riguarda la problematica della comunicazione ma soprattutto per l’aggancio col tema della formazione. Utilizzo qui la concezione della conoscenza non a mattoni  ma a reticolo, consapevole che la conoscenza di un gruppo di segmenti può aiutare alla percezione del tutto, ma pure consapevole che la comunicazione si collega alla relazione, oggi ritenuta una cifra importantissima nel tessuto culturale.

2. LA COMUNICAZIONE E LA FORMAZIONE: UN PROBLEMA DI METODO

Nessuno mette più in dubbio che la comunicazione sia uno degli elementi più importanti del nostro momento storico culturale. Le riflessioni più sofisticate come quelle più quotidiane, la stessa riflessione scientifica, hanno sottolineato come uno degli elementi portanti di qualsiasi prassi formativa sia costituito dal momento comunicativo. Questo vale in fase di ricerca, di sperimentazione, di cura, di riflessione, di didattica. La comunicazione è una realtà che noi abbiamo in atto anche in questo momento, sia di me che comunico o di voi che mi ascoltate e leggete quello che io ho scritto. E’ quindi un fatto significativo da un punto di vista più generale e importante anche da un punto di vista personale perché ci occupa in questo preciso momento. Queste osservazioni a mo’ di premessa sono già indicative, come lo è ogni introduzione, per far notare l’ambito in cui si muove la mia comunicazione e il mio modo di comunicare.

Ritengo tuttavia utile essere più precisi in alcune affermazione che credo particolarmente significative.

Perché uso spesso in questa mia relazione  l’aggettivazione etica?

Perché ritengo che questa dimensione sia intrinseca al fatto comunicativo e ne determini la stessa efficacia sia che ci troviamo in sede riflessiva che in sede pratica: esiste infatti una comunicazione anche “pratica”. Partirò con un esempio che ancora una volta prendo dalla attuale situazione che sta vivendo chi legge questo testo. Sapendo che i potenziali lettori fanno parte di un gruppo di persone con caratteristiche culturali particolari (fisioterapisti/psicomotricisti/formatori, educatori) devo come emittente tenerne conto perché è diverso scrivere per i lettori di un settimanale illustrato piuttosto che per un gruppo di specialisti. Tutto questo voleva far capire come parlare di etica comunicativa non sia una operazione moralistica, ma qualcosa di coassiale alla stessa comunicazione.

Nel mio titolo c’è poi un altro termine interessante: metodologia. Il metodo è la strada, il percorso che si deve seguire: il metodo presuppone la esperienza, l’aver già percorso un cammino; il metodo rimanda agli accumuli, alle memorie che possono essere repertoriate e poi codificate. Sul metodo ci sarebbe tanto da dire in dimensione elogiativa o critica: io mi limito a definire la mia posizione, enunciando subito una prima regola comunicativa che ritengo fondamentale: la trasparenza.

Ritengo la metodologia una delle dimensioni più importanti di ogni sapere e di ogni prassi. Penso che ciascuno abbia la propria metodologia, anche se non riflessa. Credo sia importante tentare di esplicitare la propria metodologia- sempre- ma soprattutto in una prospettiva didattica. Ritengo i miei  maestri migliori quelli che hanno provveduto con attenzione a questa prospettiva che è ricca di spunti applicativi di notevole valore. Come docente ho sempre cercato di tener fede a questa regola, come psicoanalista ritengo che, in maniera diversa, questa attenzione al metodo possa proteggere da false assolutizzazioni e permetta il dialogo “scientifico”, scambio indispensabile a ogni corretta attività umana che voglia proporsi, non come VERBO, ma come semplice parola suscitatrice di pensieri ,di riflessioni, di emozioni e anche , a volte, di proposte rigorose.

LA ESPLICITAZIONE DEL PROPRIO METODO ESIGE ANCHE LA ENUNCIAZIONE DI ALCUNE REGOLE A CUI SI ADERISCE E CHE DETERMINANO UN PARTICOLARE ORIENTAMENTO PROPRIO DEI CIASCUN OPERATORE. CERCHERO’ DI ENUNCIARE ALCUNE REGOLE CHE IO SEGUO NEL MOMENTO DIDATTICO E COMUNICATIVO IN GENERE PER MOSTRARE IN “VIVO” LA METODOLOGIA CHE ACCENNAVO PRECEDENTEMENTE.

LO SPIEGARE E IL COMPRENDERE

Esiste un linguaggio esplicativo, le spiegazione dei fenomeni, ed esiste un linguaggio comprensivo, la comprensione della realtà. I due linguaggi e le due comunicazioni che ne derivano sono diversi, hanno delle caratteristiche peculiari, sono all’insegna di differenti metodologie e obbediscono a modelli culturali diversi. Esplicitare questi nessi fa parte di una corretta trasparenza metodologica che ritengo essere una caratteristica ineludibile di qualsiasi processo formativo.

La spiegazione è stata soprattutto legato al cosiddetto metodo scientifico, del linguaggio rigoroso dei termini e del principio di causalità lineare.

La comprensione è soprattutto legata alla riflessione ermeneutica nella giustapposizione tra scienza dello spirito e scienza della natura.

Si tratta di vedere come mettere insieme queste posizioni esplicitando modelli di lettura differenti.

ALCUNE REGOLE DEL PROCESSO COMUNICATIVO: la semantica generale.

Perché avvenga una comunicazione è necessario che ci sia un emittente, un ricevente e un codice.

Ma perché la comunicazione avvenga “bene” è necessario che ci sia “sintonia”. La sintonia non significa pensare allo stesso modo, significa operare in uno stesso “mito”. Il mito che è possibile intenderci anche se si hanno idee diverse. Che è possibile dare all’altro la buona fede con la consapevolezza che nessuno possiede la verità ma che la verità è plurale. Per spiegare questo è bene soffermarsi su di una legge della semantica generale che spiega la complessità del fatto comunicativo e la scorrettezze di assolutizzazioni indebite. ALFRED KORZYBSKI un polacco emigrato in America(che le persone di lingua inglese dovrebbero ben conoscere-in Italia pochissimo è stato tradotto di questo autore)nel suo libro SCIENCE AND SANITY, enuncia tre leggi  che mi sembrano importanti per il nostro discorso.(4)

Le elenchiamo ,con un breve commento, rimandando ai testi specialistici chi volesse saperne di più:

  1. La non identità (non identity)

C’è una diversità tra la parola e il suo significato. Se io parlo dell’America, il mio parlare sull’America, non è l’America! Una cosa è l’America e un’altra cosa è il parlare dell’America. Non c’è identità tra il linguaggio e il contenuto del linguaggio. Il concetto diventa più facile ricorrendo a un esempio illustrativo del significato sopra esplicitato.

Il linguaggio è un po’ come una carta geografica che mi descrive un territorio. Ora la carta geografica non è il territorio. La carta geografica dell’Italia non è l’Italia! Una cosa sono le linee e i colori che compongono una carta geografica e un’altra cosa le strade, le case e le montagne che compongono una carta geografica e un’altra cosa le strade, le case e le montagne che sono in Italia e che vengono solo raffigurate sulla carta geografica. Sembra questa una cosa banale e ovvia ma, come capita spesso, le cose ovvie vengono dimenticate e si agisce come se così non fosse. Quante volte vedendo un programma cinematografico si pensa che quella rappresentata è la realtà e invece non si capisce che quella è una RAPPRESENTAZIONE della realtà. Quante volte si pensa che gli atomi siano delle “cose  in sè” e non dei costrutti mentali per significare qualcosa all’interno di un modello concettuale appositamente costruito!

2.  La non totalità (non allness)

Un linguaggio per quanto complesso possa essere non ci può mai dire tutto. Non esiste capacità di codificazione che riesca a trasmettere attraverso dei segni, tutto quello che uno sente o ha in mente di dire. Non si tratta solo della incapacità del soggetto comunicante, è pure una deficienza inerente al sistema decodificazione. Se si riprende il paragone con la carta geografica, essa non riesce a descrivermi TUTTO il territorio: pur perfetta che si possa immaginare, la cartina di Roma non riuscirà mai a descrivermi tutta Roma. Questa seconda regola semantica è chiaramente collegata alla precedente: proprio perché esiste la legge della non identità, si rende necessario riflettere sulla non totalità. Questa regola “umile” è molto significativa per combattere le interpretazioni onnipotenti dei vari linguaggi: onnipotenza chiaramente collegata al vissuto dei produttori che proiettano questa caratteristica sul loro linguaggio. Tiene inoltre le giuste distanze nei confronti delle pretese esaustive: nessuno può pretendere di esprimere “tutto” attraverso il linguaggio, fosse anche il più raffinato.

3.  La capacità del linguaggio di riflettere su se stesso (selfreflexiveness)

Il linguaggio può riflettere su se stesso. Esiste il linguaggio del linguaggio che permette di non sfuggire alla realtà, ma di inglobare lo stesso linguaggio nella realtà. Bisogna far notare che questa posizione sottesa ai semanticisti generali, e che noi abbiamo preso come significativa non porta al nichilismo o al completo pessimismo sulla possibilità di percepire la realtà. Non dice che il linguaggio non “tocca” la realtà’ che intende descrivere, afferma che non la tocca COMPLETAMENTE e che non ci si identifica pienamente, ma ammette che si possa esattamente parlare della realtà una volta che si è immunizzati dai microbi identificati dalla analisi semantica.

Vorrei ora analizzare tre tipi di comunicazione che ritengo metodologicamente dei modelli utile a districarsi nel difficile ma affascinante percorso comunicativo e nel complesso fenomeno formativo

1.  LA COMUNICAZIONE EGOCENTRATA-RIGIDA-:IL MONOLOGO

Una delle forme in cui oggi la comunicazione più frequentemente si manifesta è quella che abbiamo chiamata la comunicazione “rigida” Per rigidità intendiamo  la incapacità a mutare atteggiamento in funzione di una condizione obiettiva, l’incapacità di ristrutturare gli elementi di un contesto percettivo, concettuale e verbale, di fronte alle nuove richieste di una situazione che si è modificata.

Possiamo elencare alcune caratteristiche della comunicazione rigida:

  1. Il rifiuto più radicale delle convinzioni opposte
  2. La scarsa differenziazione tra diverse convinzioni
  3. La conoscenza molto più approfondita di ciò che si giudica positivo nei confronto di ciò che si rifiuta
  4. L’atteggiamento di enfatizzazione dell’ ” O – O “
  5. Uno spiccato meccanismo schizoide di scissione
  6. La scarsa capacità di relazione e della funzione dell’  “E – E”

Una comunicazione di questo tipo è caratteristica di un soggetto fortemente narcisistico. Sappiamo che Narciso è rigido, teso su di sé, non vede che la sua immagine, l’altro gli fa da specchio e reduplica quello che lui pensa si sé. Il narciso è il monologo. A volte è il monologo che “finge” il dialogo.

2. IL DIALOGO DIALETTICO

E’ il tentativo di superamento del monologo. L’ammettere la presenza di un interlocutore con cui scambiare le proprie opinioni. E’ un passo avanti nella storia del pensiero e della realtà umana. Ma il dialogo dialettico si fonda ancora sulla  proposta del più forte. Alla fine vince chi ha più argomentazioni e vince sulla morte dell’altro.

3. IL DIALOGO DIALOGALE

Segna il superamento della dialettica. Si fonda sulla considerazione dell’altro e sulla convinzione che la verità è polifonica. Si suona su vari pentagrammi. E’ la base della interdisciplinarietà e porta a un arricchimento conoscitivo e a una strategia epistemologica differente  da quella classicamente intesa.

3. ASTERISCHI ETICI

Qualsiasi comunicazione che vuole seguire le regole precedentemente annunciate si pone come caratterizzata da una precisa impostazione che deve essere “creduta” per poter funzionare. Questa per me è etica. C’è un’etica della comunicazione che va esplicitata non necessariamente perché tutti la seguono, ma perché si sappia il tracciato in cui uno si muove. Le regole comunicative che ho cercato in maniera provvisoria di elencare mi  sembrano essere importanti come meta-regole e mi sembrano applicabili in toto al processo formativo.

E’ forse giunto il momento di interrogarci sulle nostre prassi anche ovvie e scontate per smontarle un po’ e rendersi conto degli elementi che le compongono: solo così io credo che si possa favorire una formazione del personale addetto alle professioni del curare.

Solo così qualsiasi approccio, vuoi tecnico, vuoi esperienziale può’ trovare gli strumenti adatti per essere comunicato ed entrare nel mondo FORMATIVO.

Se dal punto di vista terapeutico si ritiene che la relazione sia uno degli elementi cardine del curare, questa -che è una dimensione etica- deve essere alla base di qualsiasi intervento.

Se la qualità’ della vita è oggi sempre di più un parametro a cui tutti fanno riferimento, la comunicazione “sana” deve essere l’elemento portante di ogni attività umana che voglia contribuire al miglioramento delle relazioni umane.

Lascio un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *