Prefazione al libro “Veronica”

Leggendo il bel testo dell’amico Gianni Tadolini l’ho subito associato ad un autore che ha accompagnato Gianni nella sua formazione dichiarata e negli interessi che hanno costruito la sua maniera attuale di vedere il mondo: parliamo di Rudolf Bultmann.

Mi ha fatto piacere vedere come, anche in Italia, si possa citare un teologo illustre come Bultmann in un testo che vuole essere laico, nel senso di libero da ogni pregiudizio collegato a qualsiasi forma di istituzionalizzazione sclerotizzante la libertà di pensiero. Questo è ancora più pregevole se si considera la tematica presa in esame, tematica che coinvolge dimensioni teologiche, religiose, a volte anche ecclesiastiche, tutte lette attraverso lenti non preordinate o, in ogni caso, con una precomprensione esplicitata e resa quindi più trasparente.

Ci viene in aiuto proprio Bultmann, in quel suo scritto del 1957: E’ possibile un’esegesi priva di presupposti? dove il teologo dell’Università di Marburg, con una visione molto equilibrata, risponde che, da una parte è possibile, ma dall’altra non lo è, in quanto l’esegeta non è “una tabula rasa, ma affronta il testo con determinati interrogativi, con una propria maniera di porre il problema ed avendo già una certa idea della cosa di cui si tratta nel testo”. [Per una trattazione esaustiva del problema dell’esegesi in Bultmann può essere consultato lo splendido testo di Maurizio Ferraris “Storia dell’Ermeneutica”, Bompiani, Milano 1998].

 Mi sembra questo un paradigma metodologico che riguarda non solo l’esegesi, cioè l’interpretazione di un testo “sacro”, ma che dovrebbe essere proprio di ogni ricerca che sia attenta alla realtà delle cose e che non enfatizzi pregiudizialmente i risultati.

Mi pare questo un elemento del cosiddetto metodo scientifico che, una volta dichiarati i propri interessi ed enunciata la metodologia, comincia la strada della ricerca, sia sui testi scritti come sulle realtà che vanno ad di là del libro. Questa è una prima sottolineatura che il testo di Tadolini mette in risalto, con una chiarezza e una trasparenza degne di nota.

Una seconda caratteristica, che vedo collegata ancora a Bultman, è il grande tema della demitizzazione, elemento ermeneutico fondamentale nell’esegesi del secolo ventesimo e ponte di collegamento tra le scienze bibliche e la cultura della modernità.

E’ proprio la scoperta e l’accettazione del metodo storico-critico che ha costituito il terreno adatto all’ulteriore operazione di demitizzazione “intesa non come la liquidazione del mito o il tentativo di renderlo accettabile all’uomo moderno, ma come lettura critica del mito per scoprire la vera intenzione, dentro e al di là delle immagini e delle categorie con cui esso si esprime”, questo – per usare parole del nostro teologo tedesco che vengono efficacemente messe in pratica da Tadolini – quando cerca di scoprire il significato attualizzato di una figura così complessa, e apparentemente lontana da noi, come Veronica Giuliani. Dice, infatti, come lui voglia intendere con ciò che il desiderio di essere portatori di salvezza – e il conseguente “comportamento sacrificale” come strumento per realizzare la salvezza – siano intrinsecamente legati alla natura umana, quindi si ritrovino in una “lex naturae” ancora prima che in una “lex divina”. Sono quindi pre-cristiani e pre-teologici. Con la categoria del pre-teologico e del pre-cristiano viene antropologizzata la visione della realtà che acquista così una valenza che supera la dimensione di fede per inserirsi in un mondo umano, riservato a tutti, credenti e non credenti.

Antropologizzare la visione della realtà non vuol dire ridurre tutto alla centralità dell’uomo, significa affermare che non ci può essere niente che noi possiamo conoscere a prescindere dagli strumenti umani (che sono i soli che noi abbiamo a disposizione). Anche un discorso su Dio sarà dunque possibile farlo solo con categorie umane.

E’ ancora Bultmann che ci può aiutare attraverso l’esplicitazione di quello che lui intende per mito: “I miti sono espressione della convinzione che l’uomo non è signore del mondo e della propria vita, che il mondo dove egli vive è pieno di enigmi e di misteri, e che anche la vita umana nasconde una quantità di enigmi e di misteri”.

Si collega qui la prospettiva della limitatezza umana e della precarietà che non necessariamente è un portato della teologia; fa parte dell’esperienza dell’uomo, anche dell’uomo scientifico che sa di non sapere tutto e che la totalità gli è preclusa. Si apre allora uno spazio per una riflessione etica che riguarda il mondo della scienza, della ricerca della vita di tutti i giorni ed anche della limitatezza delle nostre riflessioni, che non possono pretendere di essere esaustive, come esaustive non possono essere le norme che guidano la realtà umana. L’etica è, infatti, una casa che protegge, ma che deve essere spesso rinnovata per permettere alla protezione di essere sempre più efficace.

Mi pare questa una terza caratteristica dell’opera di Tadolini: uscire da una visione puramente teologica o clericale, per assumere la dimensione antropologica come punto fondamentale e irrinunciabile di ogni considerazione. Ma l’uscita da una visione puramente teologica non vuol dire negarla, ma assumerla criticamente nei suoi elementi importanti di lettura di una realtà.

Nasce allora il discorso della Psicostoria, che assume una valenza importante perché indicatore di un metodo che può segnare un cammino per coloro che vorranno affrontare simili tematiche in questa prospettiva.

Si ripresenta qui quanto si diceva all’inizio sull’importanza della dichiarazione dei propri interessi e di coordinate metodologiche che diventano anche piene di conseguenze etiche.

Tadolini è chiaramente uno psicologo che ha frequentato Freud; anch’io sono uno psicanalista che ha cercato di masticare Freud applicando il metodo esegetico sopra descritto, attraverso quindi non un’adesione preconcetta al verbo del maestro, ma con un’attitudine ermeneutica attenta al testo, al contesto storico in cui è stato scritto e alla necessaria attualizzazione.

In questa prospettiva vengono evidenziati quelli che sono i cardini della metodologia analitica: il transfert e il controtrasfert, due elementi indispensabili nell’approccio freudiano assieme alla dimensione inconscia che può essere tradotta nelle categorie del manifesto e del latente.

Applicare questi criteri alla lettura di un testo o di una vita non è facile, in quanto mancano gli ingredienti fondamentali: la relazione e il contatto. Ma è possibile forse estrapolare alcune caratteristiche e metterle in azione, cosa che – mi sembra – Tadolini ha cercato di fare.

Innanzi tutto il controtrasfert che è la dimensione conscia e inconscia del lettore o dello storico. Difficilmente viene presa in considerazione; qui, invece, viene in parte esplicitata dalla dichiarazione degli interessi dell’autore assieme a una chiarissima umiltà nel richiedere l’aiuto di altri per una possibile ulteriore esplicitazione del perché di questi pressanti interessi personali verso una figura femminile così conturbante. Scrive, infatti, il Nostro nella sua introduzione metodologica: Sono un figlio della cultura post-freudiana e ciò mi ha dato strumenti per riconoscere, almeno in parte, la natura dei sentimenti che mi indussero, già nella giovinezza, al contatto con Veronica. Potremmo parlare di un’erotizzazione sublimata? Forse. Se qualche psicologo vorrà spendere un po’ di tempo a rendermi edotto su ciò che avvenne nella mia interiorità non potrò che essergli grato.

 Non voglio proseguire su questa linea, solo sottolineare l’onestà e la preposta di un metodo che nello scritto tadoliniano viene fatta. Mi sembra già una cosa notevole.

Il transfert rimanda a una categoria teologica molto importante che ha riempito per decenni i testi di teologia: quella dell’ALLEANZA. Alleanza dell’uomo con Dio, di Dio con l’uomo. Alleanza con un popolo, alleanza nella conquista della Terra Promessa, alleanza tra Dio e Cristo…

Questa è una categoria che va al di là della teologia perché risiede nelle zone più profonde dell’uomo, è la categoria che sorregge il concetto di transfert tra paziente e terapeuta e tra uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna. E’ la categoria che serve a descrivere Veronica Giuliani nel suo rapporto con “un giovane giudeo vissuto in Palestina, forse torturato e messo a morte dal Sinedrio di Gerusalemme, molti secoli prima di lei” (vedi l’Apertura nel testo), un Cristo idealizzato, erotizzato, visto come un partner amoroso e passionale con cui mettere in atto – non solo la dimensione cosiddetta platonica – tutta la forza della passione sensuale, così come Tadolini riporta efficacemente.

L’attenzione alla contestualizzazione storica (e la collocazione del testo in quella struttura) mi sembra ben accennata.

Il tentativo di attualizzazione è già stato sottolineato precedentemente e viene ad essere considerato non come un’aggiunta, ma un elemento interno alla discussione stessa e alla conseguente interpretazione.

Da ultimo: un accenno alla sofferenza e all’identificazione con Cristo, elementi cardine della ricostruzione storica di Veronica Giuliani. Qui l’equilibrio di Tadolini mi sembra esemplare, in quanto viene riconosciuta una dimensione, oggi chiamata perversa, di una sofferenza raffinata e tradotta in pratiche che sfuggono alla nostra attuale giustificazione: si pensi al cilicio, alle penitenze corporali estreme che rimandano a comportamenti al limite della nostra comprensione. Ma si cerca anche di contestualizzare e riconoscere come questa spiritualità potesse avere un valore all’interno della prospettiva religiosa con una concezione della Croce e dell’imitazione di Cristo sopportate proprio perché inserite in un contesto che riusciva a giustificarle. Il nucleo diventa “la realizzazione della salvezza” vista attraverso l’atteggiamento sacrificale.

A me sembra qui importante una riflessione che insista sulla “identificazione” come componente amorosa e sull’erotizzazione del soffrire che non poteva non avere inconsciamente, ma operativamente presente, il piacere.

Un’identificazione così massiccia può essere considerata elemento positivo in un rapporto di amore adulto? La giusta distanza che dovrebbe essere presente in ogni relazione sana può essere non considerata necessaria nel rapporto con quello che il credente chiama Dio?

Il dio che si fa uomo e diventa carne venendo ad abitare tra gli uomini annulla questa distanza e rompe le leggi dell’amore attraverso una totalità che umanamente è desiderata, ma che si ritiene realisticamente non possibile in una sana relazione? Il dio che si fa uomo e muore sulla croce è anche il dio che mangia e beve, che gode dei piaceri umani, che è affettivo con la donna: è lecito spezzare questa continuità ed esaltare solo la dimensione della croce somatizzando la sofferenza ed esaltandola come quasi unica dimensione della propria religiosità? La erotizzazione non è forse una valorizzazione della carne che nello stesso tempo si vuole negare con le pratiche penitenziali e cruente? Non c’è in questo un’esaltazione della carne stessa, proprio mentre viene percossa e ripresa nell’esperienza di un orgasmo mistico?

Sono tutti interrogativi che rimangono aperti: il testo di Tadolini non li chiude con risposte definitive, ma anzi getta semi per ulteriormente pensare una tematica così complessa e suscettibile di ulteriori sviluppi.

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