Comunicazione

Voglio partire da una definizione operativa del processo comunicativo per cercare di far emergere dei modelli che verranno esaminati sotto il profilo etico, cioè vedendo come i valori, le norme, i criteri di legittimazione si intrecciano per dar vita alla realtà, fatta di quotidianità, di luci e di ombre.

La comunicazione, in questo intervento, viene vista come un passaggio di informazione e di messaggi tra emittente e ricevente, in un processo di codifica e di decodifica che si concretizza in uno stile comunicativo che riguarda l’etica; etica infatti si può anche definire un problema di stile attraverso il ricupero di tutta una riflessione che la vede, anche etimologicamente, collegata alla est-etica.

Gli interessi dei vari attori comunicanti e l’effetto della stessa comunicazione sono ancora degli elementi strutturali e di lettura che entrano in gioco nel processo comunicativo e nella formulazione del discorso etico. Il quale è pur sempre un discorso, una comunicazione dunque che è sottoponibile alla stessa analisi precedentemente descritta.

Si sottolineano tre modelli comunicativi:

  1. Il MONOLOGO
  2. IL DIALOGO DIALETTICO
  3. IL DIALOGO DIALOGALE

Sono tre modelli del comunicare, ma anche tre modelli mentali che costituiscono il nostro modo di essere, il nostro modo di pensare, il nostro operare e ci caratterizzano come “stile”. E’ facile dire di una persona che è un dialettico, uno che soprattutto fa monologhi, o un dialogico, attento al dialogo vero, quello non prevaricante. E’ già chiaro che quell’aggettivo prevaricante, costituisce un giudizio di valore, si suppone che la prevaricazione sia una attitudine comportamentale non eticamente corretta, e si da qui inizio a una riflessione che poi verrà articolata sulla sensibilità etica comunicativa.

Non è difficile riconosce re il monologo là dove l’attenzione è soprattutto rivolta al parlante da parte dello stesso soggetto che parla, gli interessi sono soprattutto di tipo narcisistico, noi usiamo oggi un termine molto espressivo anche se di sofisticata decodificazione, parliamo di autoreferenzialità.

Dobbiamo però, da persone che vogliono fare una riflessione etica corretta, affermare che il monologo non è di per sé negativo. Bisogna vedere il contesto in cui si situa. Il monologo di un grande attore, che si rivolge a un pubblico attento, che sollecita gli interessi del gruppo, può essere altamente etico. Si tratta ancora di esaminare gli interessi che sollecita e da cui è sollecitato. Lo stesso monologo, dal punto di vista etico, non può essere assolutamente stralciato dal contesto comunicativo.

Da cui ne nasce una prima importante norma: la contestualizzazione comunicativa. Tradotta significa, non posso correttamente emettere un giudizio morale senza tener conto del contesto in cui la comunicazione si colloca e si struttura. Il giudizio etico deve contestualizzare il parlante in relazione al ricevente attenti ai problemi di codifica e di decodifica situati in un contesto determinato.

Se il paziente, in un contesto medico, è un extracomunitario, bisogna prima di tutto essere attenti a che sappia decodificare il messaggio linguisticamente, ma bisogna anche conoscere il sistema di valori da cui proviene e che costituisce la dimensione di base della sua etica. Sul problema del rapporto vita/morte le sensibilità e gli stili sono molto influenzati dalla cultura di appartenenza e un buon comunicatore deve tenerne conto. Deve cioè essere attento a come codifica il suo messaggio in modo che sia decodificabile: questa è una norma etica fondamentale che prescinde dal contenuto etico del messaggio stesso. Nel senso che prima di parlare sul merito del messaggio si deve parlare della sua struttura comunicativa. Tutto questo deriva da una acquisizione dei teorici della comunicazione che ci insegnano che il mezzo è il messaggio, cioè la confezione del messaggio stesso è già un elemento importantissimo, carico di valenze etiche.

Questo ci rimanda anche a un’altra riflessione che si situa sul capitolo del metalinguaggio. Una cosa detta vale non solo per quello che dice ma per come viene detta. Questo come è a volte carico di valenze comunicative così forti che possono anche cambiare radicalmente il contenuto dl messaggio.

Pensiamo a una espressività aggressiva che comunica molto al di la del contenuto esplicito. Per esemplificare si può comunicare una decisione che io posso ritenere eticamente scorretta, da parte dell’operatore medico, per es. la scelta abortiva vista come la cosa medicalmente migliore in quel dato momento. Posso ritenere eticamente corretta o scorretta questa scelta in base ai miei valori. Non è questo che si vuole considerare attraverso la riflessione precedente la quale vuol significare che al di là delle scelte di contenuto, aborto si o no, quello che conta è la comunicazione trasparente e chiara.

La trasparenza e la chiarezza esigono la capacità di codifica del messaggio tenendo presente le caratteristiche di decodifica del ricevente. E’ questa quella che vorrei chiamare la metaregola comunicativa che poi dovrà essere sottoposta a un ulteriore verifica dl giudizio etico.

Per quanta riguarda l’etica comunicativa la regola fondamentale diventa la chiarezza comunicativa e la trasparenza delle procedure di codifica ed di decodifica.

Per fare questo è necessario applicare la ulteriore metaregola della circolarità. Devo cioè verificare se la mia comunicazione è stata decodificata secondo le mie intenzioni e il mio messaggio è stato correttamente recepito. Per fare questo è indispensabile che da comunicatore diventi ricettore, che inverta quindi la funzione comunicante ed esperimenti quella che prima era la esperienza di chi ascoltava. Devo diventare ricevente e capire così se il messaggio è passato. Può darsi che in questo transito io stesso apprenda qualcosa e debba rimettere a punto quello che avevo comunicato. Nasce così il risvolto dialogico della comunicazione che supera il monologo mentre si avvicina alla posizione del dialogo.

Il DIALOGO DIALETTICO

Il superamento del monologo avviene attraverso il dialogo. Ma c’è dialogo e dialogo. Una delle forme usuali della comunicazione dialogica è quella che fa uso della dialettica: il dialogo dialettico. Il dialogo dialettico è spesso ancora ancorato ai presupposti del monologo o della comunicazione egocentrata. Infatti l’uso della ragione chiara e distinta è, a volte, l’uso di un coltello che taglia le ragioni ai torti, che giudica, che non è affatto disposto ad accogliere l’altro. Il dialogo dialettico è una specie di arena intellettuale in cui la ragione lotta per vincere l’avversario. Può essere un’attitudine competitiva forte nel senso che si vuoi distruggere l’interlocutore o si può essere più “bonari”, di fatto lo scopo del dialogo dialettico è quello di far trionfare la ragione, e la ragione di uno solo perché la verità in questo contesto non può essere che “una”. Ora il dialogo dialettico non è l’unica forma di dialogo.

IL DIALOGO DIALOGALE

La scoperta del dialogo “dialogale” rappresenta una importante mutazione culturale.

Il vero dialogo, e noi potremmo dire la vera comunicazione, non è né uno strumento della dialettica, né un aiuto che viene da un altro, dall’esterno per fortificare la mia introspezione. Il dialogo dialogale non è il rafforzamento del monologo per il fatto che quattro occhi vedono meglio di due. E’ una novità, una prospettiva diversa. Non è più solo un nesso per conoscere l’altro o il suo punto di vista o un aspetto della potenza dialettica. Il dialogo è la mia apertura all’altro affinché mi dica e mi sveli il mio mito, quello che non posso conoscere da solo, quello che io considero come ovvio. Il dialogo è una maniera di conoscermi e di scoprire il mio punto di vista a partire da una interiorità più profonda che restava nascosta in me e che l’altro risveglia attraverso il suo incontro con me. Il dialogo riconosce che l’altro non è solo un aiuto esterno e accidentale ma che è indispensabile alla ricerca della verità perché io non sono più autartico, autosufficiente, autonomo. Il dialogo va alla ricerca della verità dando confidenza all’altro, mentre la dialettica va alla ricerca della verità credendo nell’ordine delle cose, nel valore della ragione.

La dialettica è l’ottimismo della ragione. Il dialogo è l’ottimismo del cuore. La dialettica crede che si può avvicinarsi alla verità appoggiandosi sulla consistenza obiettiva delle idee. Il dialogo crede che si può avanzare sul cammino della verità appoggiandosi sulla consistenza soggettiva dei dialoganti. Il dialogo non vuole essere un “duo-logoi” ma un “dia-logos”.

Questa forma di dialogo l’abbiamo chiamata dialogo dialogale e ci sembra una acquisizione “forte” dei nostri tempi, su cui la riflessione sulla comunicazione porta un guadagno notevole e con cui l’etica deve fare i conti. (Pannikar R. 1984).

Si tratta di rompere la narcisistica considerazione di sé a livello individuale e culturale, rompere l’assoluta fiducia nei nostri codici, si tratta di domandarsi con Rogers:

  • Riesco veramente a permettere che un’altra persona si senta ostile nei miei riguardi? Riesco ad accettare la sua ira come una parte autentica, legittima di lei? Posso accettarla quando considera la vita e i suoi problemi in maniera totalmente diversa dalla mia?

L’accettazione implica tutto ciò e non può essere facile. Ho l’impressione che nella nostra natura, vi sia tendenza a pensare “Tutti gli altri devono sentire, pensare, credere quello che io penso, sento e credo”. L’etica della comunicazione deve fare i conti con queste tre forme comunicative.

Spesso in chiave bioetica, nel rapporto tra medico e paziente, medico parenti si attua una forma di monologo che non sembra eticamente corretto. Si tratta di dire le cose in maniera autoritaria come da chi “sa” nei confronti di chi “non sa”. E’ una comunicazione a senso unico che non è mai positiva se non tiene in considerazione il ricevente. Il quale non necessariamente deve “sapere” può darsi si trovi in una situazione in cui non può sapere perché non ne ha le capacità o perché non ci sono le condizioni. Anche in questo caso ritengo che il monologo non sia la forma più eticamente corretta. Penso che anche presupponendo un sapere professionale necessariamente più evoluto ci sia anche il sapere o il non sapere dell’altro che va preso in considerazione.

E’ proprio questo prendere in considerazione l’altro che costituisce l’ossatura di un’etica comunicativa che deve guidare il processo comunicativo stesso. Questa diventa la norma aurea o se si vuole la metanorma che guida la riflessione e la pratica etica

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